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Sur les « Sept dernières paroles du Christ en Croix », un dialogue entre Riccardo Muti et Massimo Cacciari

02oct

Ce matin du vendredi 2 octobre,

je découvre, dans Il Corriere della Sera d’hier, un article d’Aldo Cazzullo intitulé 

« Riccardo Muti e Massimo Cacciari : Ascoltare l’umanita di Gesu« .

Riccardo Muti e Massimo Cacciari Ascoltare l’umanità di Gesù

Il direttore d’orchestra e il filosofo discutono a partire dalle opere di Masaccio e di Franz Joseph Haydn in «Le sette parole di Cristo» (il Mulino) in uscita il 3 ottobre

di ALDO CAZZULLO
Riccardo Muti e Massimo Cacciari Ascoltare l'umanità di Gesù
Masaccio, «Crocifissione» (1426), Museo nazionale di Capodimonte, Napoli

«Molti direttori d’orchestra non conoscono il latino, non l’hanno studiato — parlo dei direttori d’orchestra che eseguono il Requiem di Verdi : la prima parole che il coro pronuncia è “Requiem”. I direttori leggono l’indicazione dinamica scritta in partitura : “pianissimo”, “sottovoce”, e si soffermano sulla parola “Requiem”. Ma la frase intera è “Requiem aeternam dona eis Domine”. “Requiem” è accusativo ed è retto dal verbo “dona” che è il motore della frase, quindi deve essere sì eseguito pianissimo, ma esprimendo un senso di disperata richiesta. Non è una frase passiva, espressione di una situazione di quiete. Talvolta viene eseguito senza vita, soffermandosi solo sulla prima parola, mentre invece occorre porre l’attenzione sul verbo. Pensiamo a un errore analogo nella Traviata di Verdi, quando il tenore intona la celebre aria Dei miei bollenti spiriti, dimenticando di accentuare il seguito…».

Ecco cosa succede a mettere insieme due teste come Riccardo Muti, il più importante direttore d’orchestra al mondo, e Massimo Cacciari, filosofo dal multiforme ingegno. Ne esce un libriccino intitolato Le sette parole di Cristo (133 pagine, che il Mulino sta per pubblicare) la cui lettura è un puro piacere intellettuale, che spazia tra musica, teologia, fede, pittura.

«Le sette parole di Cristo» esce il 3 ottobre dal Mulino (pagine 134, euro 12)

«Le sette parole di Cristo» esce il 3 ottobre dal Mulino (pagine 134, euro 12)

L’incipit viene appunto da un dipinto, che Muti e Cacciari ammirano insieme a Capodimonte : la Crocifissione di Masaccio, una delle opere che aprono la grande stagione rinascimentale. Il Cristo morente ha appena pronunciato la settima delle sue ultime frasi, affidando l’anima al Padre. Agli autori tornano in mente Le sette ultime parole del nostro Redentore in croce, le sette sonate composte da Haydn probabilmente nel 1786 per la cerimonia del Venerdì Santo celebrata nella cattedrale di Cadice, che Muti diresse — e Cacciari ascoltò — al Festival di Ravenna. Sono quindi Masaccio e Haydn a ispirare il dialogo, che finisce per dare suono, voce, musica al dipinto e per dare forma, prospettiva e colore alla partitura.

Il filosofo ancora ricorda le parole con cui il direttore d’orchestra invitò il pubblico ravennate all’ascolto : «Vi ritroverete ciascuno con la propria vita, i propri dolori, le proprie paure, le proprie speranze, tutti uniti in Cristo; l’umanità di Cristo è l’umanità di voi che ascoltate».

Riccardo Muti

Riccardo Muti

«Pater, dimitte illis quia nesciunt quid faciunt» ; Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno. La parola-chiave, fa notare Muti, è la prima, «pater», evocata dai violini, con un tono contemplativo e malinconico in cui Cacciari coglie, oltre alla richiesta di perdono, il disincanto sulla natura di «quelli», di noi esseri umani.

«Hodie mecum eris in paradiso», in verità ti dico : oggi sarai con me in paradiso. L’oggi, fa notare Cacciari, è l’oggi perfetto : un «Hodie» eterno, che indica quello che sta per accadere nel giro di poche ore e nello stesso tempo dà la misura dell’eternità. «E infatti — risponde Muti — le note sono : “do-mi-re-si-do”, Haydn parte dal do e torna al do, e poi “sol-do-si-la-sol”, si parte dal sol e torna al sol — quindi si formano come due cerchi», appunto il simbolo dell’infinito : «Idea consapevole oppure mistero del genio ?».

Massimo Cacciari

Massimo Cacciari

«Mulier, ecce filius tuus» ; Donna, ecco tuo figlio. Qui la parola-chiave è «ecce». La sonata ha inizio con due corni. Una scelta ardita, che gli autori leggono alla luce del grido muto del Cristo di Masaccio e del pianto non solo della Madonna e di San Giovanni ma anche e soprattutto della Maddalena, che nell’opera di Capodimonte rappresenta idealmente l’umanità.

«Deus meus, Deus meus, ut quid derelequisti me ?»; Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato? Per restituire la frase più drammatica, la musica deve esprimere un senso di trascinamento ; il suono a un tratto si ferma, «come fossero singhiozzi».


«Sitio», ho sete. Quasi un impulso per sopravvivere ; dopo aver pensato ai carnefici, al buon ladrone, alla madre, a Dio, Gesù si rende conto che sta morendo, e la sua natura umana lotta per resistere. «Qui comincia il tema sostenuto da una serie di pizzicati — annota Muti —, che sono come delle gocce d’acqua, gocce d’acqua e di sangue» ; che a Cacciari ricordano le «lacrime di sangue» del Rigoletto.

«Consummatum est»; tutto è compiuto. Una frase che gli autori leggono in parallelo a quella — «tempo più non v’è» — con cui il commendatore trascina via il don Giovanni di Mozart.

«In manus tuas, Domine, commendo spiritum meum» ; Padre, nelle tue mani affido il mio Spirito. E qui gli autori si inoltrano in una discussione (che coinvolgerà gli evangelisti, i Wiener Philharmoniker, il Duomo di Milano, una sinfonia di Bruckner, e poi Cherubini, Brahms, Beethoven, la decapitazione di Luigi XVI, il carnevale di Molfetta…); ma rivelarla è contraria allo spirito delle recensioni ; che non devono raccontare i libri, semmai indurre a leggerli (almeno i non molti che vale la pena di leggere ; tra i quali c’è sicuramente questo).

Il volume

Esce sabato 3 ottobre il volume Le sette parole di Cristo, un dialogo tra Riccardo Muti e Massimo Cacciari. Il libro, edito dal Mulino (pagine 133, euro 12) fa parte della collana Icone : gli autori discutono a partire dalla Crocifissione di Masaccio e dalle Sette ultime parole del nostro Redentore in croce, composizione di Franz Joseph Haydn

Voilà qui est intéressant.

Cf ce que je disais de cette œuvre éminemment singulière _ composée pour la Hermandad de la Santa Cueva de Cadix, en 1785 _ de Joseph Haydn

que sont ces sublimes « Sept dernières paroles de notre Sauveur sur la Croix« ,

en un article à propos des recueils de « dernières paroles« , le 12 novembre 2008 :

 

Dont voici, tel quel, l’extrait significatif :

« Les Sept dernières Paroles de Notre Sauveur sur la Croix » : l’œuvre musicale de Joseph Haydn pour à la chapelle de la Santa Cueva de Cadix

Les « dernières paroles » du Christ (en croix) _ j’y reviens _, telles, aussi, que Joseph Haydn les a mises en musique pour l’office (avec un rituel spécifique et original) du vendredi-saint de la « Hermandad de Santa Cueva » à Cadix, à la demande, en 1785, de José Saenz de Santa Maria, marquis de Valde-Inigo, et chanoine de cette église _ le marquis venait de perdre son père, à la mémoire duquel c’était là, aussi, pour lui, une façon de rendre hommage avec grandeur. L’œuvre de musique de Joseph Haydn _ en allemand « Die sieben letzten Worte unseres Erlösers am Kreuze » _, composée tout spécialement pour cette « Confrérie de la Sainte Grotte » à Cadix, en Andalousie, était à l’origine seulement instrumentale. L’évêque qui célébrait cet office consacré à la méditation du sacrifice rédempteur du Christ, prononçait en effet du haut de la chaire chacune des paroles du Sauveur sur la croix, assortie d’un commentaire, que venait ensuite prolonger une paraphrase musicale (développée à raison d’une dizaine de minutes pour chacune), afin de « soutenir » la « méditation » orante des fidèles sur ce legs, tout uniment divin et humain, du Rédempteur. En forme de rotonde, le temple tout tendu de noir de la crypte se voyait plongé _ la célébration commençait à la demi-journée _ dans le recueillement de l’obscurité _ celle-là même de la Crucifixion de Jésus, en dépit du plein-jour extérieur : rappelant le rituel de « Ténèbres », à matines, lui, où les treize cierges demeurés allumés sur l’autel étaient successivement éteints, jusqu’à ce que le dernier (représentant le Christ), soit _ sans être éteint, lui _ seulement ôté de la vue des fidèles, déposé derrière l’autel (pour réapparaître en gloire le dimanche de Pâques _ les autres cierges, représentant, eux, les apôtres) ; le jour venant lentement bientôt dissiper la ténèbre.

le rituel des « Sept dernières paroles du Christ » à la chapelle de Cadix

Les parois, les (rares) ouvertures et jusqu’aux colonnes de la chapelle de cette crypte, étaient en effet entièrement tendues de voile noir ; seul un lustre-chandelier, suspendu au centre de la rotonde (constituant la chapelle), proportionnait son éclairage tremblé, mouvant, à l’obscurité de la cérémonie rappelant le ciel d’encre (de tempête) de Jérusalem au moment de la mort de Jésus. A midi même, les portes du temple étaient ainsi fermées, et commençait la musique. Après ce prélude du concert d’instruments, l’évêque, monté solennellement en chaire, y proclamait la première des sept paroles, assortie d’un commentaire de sa signification pour la foi. Puis, redescendu de la chaire, le célébrant s’agenouillait devant l’autel. Et c’est à ce moment de recueillement de l’assemblée des fidèles, que la symphonie revenait prolonger et nimber de son halo harmonique (= par une sonate, paraphraser mélodiquement) la parole commentée. Et ainsi, pour chacune des sept paroles, l’évêque montant en chaire, en redescendant, et l’orchestre déployant à chaque reprise ses phrases musicales pour accompagner la méditation des mots du Christ. Joseph Haydn (1732 – 1809) appliqua pour sa composition ce schéma du rituel de la Confrérie ; et compléta les sept développements musicaux (sept fois adagio) par une introduction et un final, le terremoto ou tremblement de terre, afin de figurer celui qui marqua, zébrant des éclairs de la tempête éclatant alors, le passage à l’éternité du Christ. C’est sous cette forme instrumentale orchestrale (pour 2 flûtes traversières, 2 hautbois, 2 bassons, 4 cors, 2 trompettes, timbales, violons, altos, violoncelles et contrebasse) qu’ainsi l’œuvre fut donnée à la Santa Cueva de Cadix, le vendredi-saint 6 avril 1787, en début d’après-midi, donc. Avant de devenir bientôt aussi, suite à son retentissant succès par toute la catholicité, un oratorio ; les « Paroles du Christ » n’étant, cette fois, plus prononcées (non plus que commentées) par le célébrant, mais chantées par un chœur. En 1792, en effet, Joseph Friebert (1724 – 1799), chanoine et directeur musical de la cathédrale de Passau sur le Danube, en avait réalisé une version chantée pour chœur (sur un texte en allemand qu’il avait commandé au poète berlinois Karl Wilhelm Ramler _ 1725 – 1798 _ membre de l’Académie royale, ainsi que directeur du Théâtre royal de Prusse, à Berlin) ; laquelle version d’oratorio fut donnée à la cathédrale de Passau le vendredi-saint. En découvrant un peu plus tard cette « adaptation » (bavaroise) pour chœur de son œuvre orchestrale (gaditaine), Joseph Haydn se mit à remanier, avec l’amicale participation du baron Gottfried van Swieten (1733 – 1803), la partition chorale de Friebert, tout en conservant le texte de Ramler pour les paraphrases de commentaire des « sept Paroles » du Rédempteur. Cette nouvelle et dernière version des « Sept dernières Paroles de Notre Sauveur sur la croix« , sous forme d’oratorio, donc, fut publiée par Breitkopf & Hartel à Vienne, sous l’autorité du compositeur, en 1801.

Ce vendredi 2 octobre 2020, Titus Curiosus – Francis Lippa

chiffrage et inhumanité (et meurtre politique de masse) : l’indispensable et toujours urgent « Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline » de Timothy Snyder

29juil

C’est un événement considérable pour l’intelligence du devenir historique (y compris de maintenant : quant à la « marche du monde« … _ selon une expression qu’affectionnait Giono _), que la publication _ aux États-Unis le 28 octobre 2010, par Basic Books, une filiale du groupe Perseus Books, et, ce mois d’avril 2012, en français, aux Éditions Gallimard, dans la traduction de ce transmetteur infatigable (passionnant et génial par ce que sait dénicher de « trésors«  sa curiosité croisée érudite !) qu’est Pierre-Emmanuel Dauzat, et cela moins de deux ans, donc, après sa parution anglo-saxonne _ de Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline, par l’historien américain _ professeur à Yale _ Timothy Snyder.

A mes yeux, un chef d’œuvre _ indispensable, donc ! et urgent : je développerai pourquoi… _ de l’historiographie contemporaine,

dans la lignée de cet autre « indispensable » _ historiographiquement comme humainement, et indissociablement les deux ! _ admirable (!!)

_ avec, dans ce livre-ci, aussi, comme un concert (tragique) de toutes ces voix (ainsi « J’aurais voulu citer tous les noms un par un, écrit la poétesse Akhmatova dans son Requiem, mais on a pris la liste, il ne reste plus rien« , est-il rapporté, page 20 ; et la culture littéraire de Timothy Snyder est, elle aussi, profonde et magnifique !..) ; avec, dans ce livre-ci, aussi, comme un concert (tragique) de toutes ces voix que, par-delà la double disparition de leurs corps (deux fois abolis et effacés : leurs vies d’abord assassinées, puis les restes (sans sépulture !) de leurs cadavres, déterrés des fosses, et cette fois réduits en cendres, lors de l’Aktion 1005 dirigée par le (de sinistre mémoire !) Paul Blobel…) ;

avec, dans ce livre-ci, aussi comme un concert (tragique) de toutes ces voix, donc,

que Timothy Snyder nous donne sublimement, chacune à sa juste place, à ré-entendre in extremis (et ainsi comme vivre à jamais :

« Des cités entières disparaissent. À la place de la nature

Juste un petit bouclier pour contrer l’inexistence« ,

ainsi que l’énoncent deux vers du Bouclier d’Achille de Tomas Venclova, placé parmi les exergues du livre, page 7 : Tomas Venclova, poète lituanien (né le 11 septembre 1937 à Klaipeda) enseigne lui aussi à Yale depuis septembre 1980, et a eu pour amis Czeslaw Milosz et Joseph Brodsky, tous deux aussi issus de ces « Terres de sang » : Milosz, né le 30 juin 1911 à Szetejnie, en Lithuanie, non loin de Vilnius ; Brodky, né le 24 mai 1940 à Leningrad ; et eux aussi survivants de ce qui eut lieu en cette « Europe (-là prise) entre Hitler et Staline« , entre 1939 et 1945 pour le principal des dégâts…) ;

les autres exergues sont empruntés à Paul Celan, Fugue de mort :

« tes cheveux d’or Margarete,

tes cheveux cendre Sulamith« ,

 

Vassili Grossman, Tout passe :

« Tout coule, tout change ;

il n’y a pas deux convois qui se ressemblent »,

 

et un chant traditionnel ukrainien, Tempête sur la mer Noire :

« Un inconnu s’est noyé dans la mer Noire, seul,

Sans personne pour l’entendre implorer pardon«  _

dans la lignée _ avec aussi un concert (sublime) de toutes ces voix in extremis ré-entendues, sinon ressuscitées _ de cet autre « indispensable » admirable _ quel monument d’historiographie, comme d’« humanité«  : les deux ! _

qu’est L’Allemagne nazie et les Juifs, de Saul Friedländer _ traduit aussi, déjà (!) par Pierre-Emmanuel Dauzat :

au point que j’ai joint au téléphone Pierre-Emmanuel Dauzat afin de m’enquérir de plus ou moins lointaines racines (est-européennes : ukrainiennes, par exemple, ou de quelqu’une de ces « Terres de sang » de notre Europe centrale et orientale…) de l’auteur de ce considérable admirable travail, Timothy Snyder : qu’a-t-il donc, lui, citoyen américain né en 1969, pu vivre (ou pu hériter de proches ; et ce peut être de l’ordre du silence mutique…), qui apparente si magnifiquement son travail d’historien ici (avec le « concert«  de toutes ces voix, comme à jamais sauvées, qu’on avait voulu anéantir en les massacrant en masse, et jusqu’à des millions, une par une…) à celui, si haut et si magnifique, avec le même « concert« , devenant fraternel à travers leur sort (hélas trop semblablement uniforme, lui !), de ces voix elles aussi in extremis comme sauvées, rassemblées en pareil si essentiel livre d’Histoire, de Saul Friedländer ?.. Même si ici, Timothy Snyder élargit le champ d’analyse aux personnes (et voix) des victimes de Staline, ainsi que de toutes les autres victimes civiles de Hitler, au-delà des personnes (et voix) juives victimes de Hitler, pour Saul Friedländer…

Et cela, pas par une simple addition, mécanique et listée en chiffres, sans les noms, de ces victimes ; mais par la prise en compte du fait particulièrement terrible, aux conséquences monstrueuses, de l’interconnexion, aux rouages complexes, magistralement décortiqués ici par l’analyse au scalpel de Timothy Snyder, des « crimes politiques de masse«  et staliniens et nazis, commencés dès 1932-1933, sur la base

(et cela, sur le terrain de ces « Terres de sang« , à partir du pacte germano-soviétique du 23 août 1939 ;

une semaine plus tard, « le 1er septembre, la Wermacht attaqua la Pologne« , page 193 ;

et « le 17 septembre 1939, l’Armée rouge envahit la Pologne par l’est. Elle opéra sa jonction avec la Wermacht au milieu du pays pour organiser un défilé commun de la victoire. Le 28 septembre, Berlin et Moscou conclurent un second accord sur la Pologne : le traité sur les frontières et d’amitié« , page 194 ;

et bientôt Staline allait en profiter pour mettre aussi la main sur les trois États baltes indépendants pourtant depuis le traité de Riga, en mars 1921 (cf page 36) : « Ce même mois, en juin 1940, l’Union soviétique étendit aussi son empire à l’ouest, annexant les trois pays Baltes indépendants : Estonie, Lettonie, Lituanie« , page 230 :

sur les exactions que les Soviétiques y commirent entre juin 1940 et le 22 juin 1941, le jour de l’attaque-surprise par l’Allemagne de l’Union soviétique, lire les pages 231 à 233 ;

puis entre le 22 juin 1941

(« le 22 juin 1941 est l’un des jours les plus significatifs de l’histoire de l’Europe. L’invasion allemande de l’Union soviétique qui débuta ce jour-là sous le cryptonyme d’opération Barbarossa fut bien plus qu’une attaque-surprise, un changement d’alliance, une nouvelle étape de la guerre. Ce fut le commencement d’une indescriptible calamité. L’affrontement entre la Wermacht (et ses alliés) et l’Armée rouge tua plus de 10 millions de soldats, sans parler d’un nombre comparable de civils morts en exode, sous les bombes, ou de faim et de maladie des suites de la guerre sur le front de l’Est Au cours de cette guerre, les Allemands tuèrent aussi délibérément _ et nous voici à l’un des tenants du sujet de ce livre : l’interconnexion des « meurtres politiques de masse«  stalinien et nazi, avec 14 millions de victimes hors actions militaires… _ quelque 10 millions de personnes, dont plus de 5 millions de Juifs et plus de 3 millions de prisonniers de guerre« , page 251) ;

puis entre le 22 juin 1941

et le 8 mai 1945, la fin de la guerre en Europe ;

fin ici de l’incise)

sur la base, donc,

de ce que François Furet a qualifié, Timothy Snyder le rappelle page 591, de la « complicité belligérante«  de Hitler et Staline…

Et c’est l’étendue colossale doublement cyniquement enchevêtrée de ses dégâts, Hitler comme Staline ayant su l’un autant que l’autre diaboliquement en jouer, dans cette « Europe«  prise « entre Hitler et Staline« , qui fait l’objet de cette passionnante (richissime autant qu’irrésumable !) enquête de démêlage chronologique au scalpel (de 628 pages) de telles complexités meurtrières des systèmes politiques identifiables sous les noms de Staline et Hitler, en ce capital Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline ! Ce livre est un trésor !

Staline, celui qui a dit un jour de décembre 1944 à Moscou au général De Gaulle « À la fin, c’est la mort qui gagne« , non seulement n’avait pas, mais ne doit pas non plus, jamais, avoir raison !

La mort ne doit jamais gagner !


Et je renvoie ici à la grande méditation de Fedor Dostoïevski dans Les Frères Karamazov pour contrer les arguments de Dimitri Karamazov, son personnage affirmant : « si Dieu n’existe pas, tout est permis« … Non, tout n’est pas permis ; pas plus au tyran autocrate qu’à n’importe qui ; ni jamais, quelles que soient les circonstances, ou l’opportunité ! Ô Prince de Machiavel…

Lire aussi, sur Staline, l’immense génial roman faustien de Mikhaïl Boulgakov : Le Maître et Marguerite : autre chef d’œuvre essentiel de la littérature mondiale...

Mais Timothy Snyder (né le 18 août 1969 _ aux États-Unis ; je n’ai pas déniché jusqu’ici davantage de précision bio-géographique _ : il avait donc 41 ans seulement lors de la publication de Bloodlands : Europe between Hitler and Stalin en octobre 2010)

est, sinonet déjà _ d’un autre continent,

du moins _ et aussi _ d’une autre génération

que Saul Friedländer (né le 11 octobre 1932 à Prague). Sur l’enfance de ce dernier, et sa traversée personnelle _ en France _ de la guerre de 1939-45, on lira, en complément de son chef d’œuvre, le magnifique Quand vient le souvenir

J’ignore donc pour le moment d’où procède l’étincelle à la source si féconde de l’énergie et de l’enthousiasme historiographiques qui animent si puissamment Timothy Snyder pour son sujet, celui de ces « Terres de sang » entre 1933 et 1945 _ et jusqu’à la mort de Staline, le 5 mars 1953 : car c’est alors que vont cesser les « meurtres politiques de masse » comme outil politique fréquent, lors de ce (long et lent) processus qu’on a pu qualifier de « déstalinisation« … : cf le chapitre XI, « Antisémitisme stalinien » (pages 517 à 571) ; « L’Union soviétique dura près de quatre décennies après la mort de Staline, mais ses organes de sécurité ne devaient plus jamais organiser _ voilà ! _ de famine ni d’exécutions en masse. Si brutaux qu’ils aient été, les successeurs de Staline délaissèrent la terreur de masse au sens stalinien« , page 562 _,

ainsi que sa méthode _ à moins que celle-ci ne doive quelque chose, au contraire, à l’ex-centrement même vis-à-vis de l’espace (et plus encore historico-culturel que géographique) européen de Timothy Snyder ; toutefois, cette méthode historiographique comporte à mes yeux quelque chose de l’esprit du vieux Baroque européen ; celui qui illumine et fait crépiter, du jeu ultra-riche de ses multiples facettes, la fiction, cette fois, du Concert baroque du cubain Alejo Carpentier (l’auteur de ces jouissives œuvres baroques du XXe siècle que sont La Danse sacrale, Le Recours de la méthode, Le Siècle des Lumières et Le Partage des eaux), si je puis oser semblable comparaison avec une œuvre de fiction, à propos de l’œuvre d’historiographie de Timothy Snyder… _ :

doit-on les considérer, ce sujet comme cette méthode, simplement et seulement comme « scientifiques » ?.. Il me semble qu’il y a là aussi (et très essentiels !), pour Timothy Snyder, de fondamentaux enjeux d' »humanité » même : anthropologiques (et civilisationnels) autant qu’éthiques…

Et c’est le cœur même de cette œuvre, en cela et par cela capitale !..

J’ai noté aussi que, parmi ses travaux d’historien antérieurs, en 2003,

Timothy Snyder a publié (à la Yale University Press) The Reconstruction of Nations : Poland, Ukraine, Lithuania, Belarus, 1569-1999 : un travail _ outre qu’il se trouve dans le viseur de permanentes interrogations miennes à propos de ces « territoires » de « confins illimités«  (cf la signification même de noms tels que « Ukraine«  ou « Podolie« …), aux frontières incertaines et violemment fluctuantes depuis la nuit des temps… _ dans la continuité duquel vient on ne peut plus clairement s’inscrire, sept ans plus tard, en 2010, cet admirable Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline _ et voilà un autre livre de Timothy Snyder à traduire en français pour Pierre-Emmanuel Dauzat…

Pour commenter cette expression (capitale !) de « confins illimités« , j’ajoute que, en procédant à des recherches concernant la bibliographie du romancier polonais Wlodzimierz Odojewski (né en 1930 à Poznan), dont m’a si fort impressionné jadis (et pour jamais !) Et la neige recouvrit leur pas, j’ai trouvé mention d’un ouvrage de critique littéraire de Marek Tomajewski, à propos d’Odojewski (1930 – ) et de Leopold Buczkowski (1905-1989) principalement, intitulé Écrire la nature au XXe siècle : les romanciers polonais des confins, paru en 2006 aux Presses universitaires du Septentrion… Le mot même d’« Ukraine«  ne signifie-t-il pas « terres frontalières« , « marches« , comme celui de « Podolie« , « confins » ? : en un très vaste territoire sans frontières clairement délimitables, et aux populations depuis toujours, et un peu plus qu’ailleurs (cf l’exemple déjà plus proche de nous, de la Bosnie-Herzégovine dans l’œuvre, ô combien magnifique aussi, d’Ivo Andric : Le Pont sur la Drina, Chronique de Travnik, etc.) ;

et aux populations mélangées ainsi que ballottées ; il est vrai qu’il y a eu spécialement là d’énormes terribles déplacements de populations, ou plutôt « nettoyages ethniques«  (cf, entre autres, le chapitre de ce nom, pages 479 à 515 de Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline à propos de ce qui advint là lors de l’après-guerre, de 1945 jusqu’à la mort de Staline, le 5 mars 1953, où ces « nettoyages ethniques«  cessèrent eux aussi, du moins pour l’essentiel : comme les « meurtres politiques de masse«  de Staline et Hitler…).

Mais recentrons-nous sur Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline : il y a tant d’années que j’attends personnellement un tel livre d’Histoire !

Jusqu’ici, sur ce sujet (brûlant et soigneusement oblitéré dans la culture occidentale _ et l’un parce que l’autre : cf par exemple l’appel tragiquement in-entendu en 1964 de Czeslaw Milosz (30-6-1911 – 14-8-2004, et prix Nobel de Littérature en 1980) : le très important (pour notre continent en son entier) Une autre Europe : les Européens de l’Ouest ayant bien d’autres priorités… ; mais lire aussi le témoignage de Jan Karski sur l’échec de ses efforts, au sein de la résistance polonaise, afin de convaincre d’intervenir là (si peu que ce soit) au cours de la guerre, et Churchill, et Roosevelt, en son très important Mon témoignage devant le monde _ souvenirs 1939-1943 _),

j’ai dû me contenter, pour l’essentiel _ pour tâcher d’en approcher-ressentir-comprendre un peu mieux l’âme ; ainsi que le plus encore si terrifiant, à ce degré-là, sans-âme ! _, d’ouvrages « littéraires » d’écrivains-romanciers _ je ne parle pas ici de la poésie (explosive ! par exemple celle de Paul Celan…), qui n’offre pas de fil tant soit peu continu à dérouler… _, d’ailleurs tout bonnement admirables,

tels que, et au tout premier chef, le stupéfiant _ j’ai rarement lu une vision aussi forte de l’Histoire dévastée de ces particulièrement malheureuses régions… _ Et la neige recouvrit leur trace, de Wlodzimierz Odojewski _ né en 1930 à Poznan, cet écrivain-romancier est toujours actif : il vit depuis 1971 à Berlin… _, un roman proprement sidérant (!) écrit en 1967, et paru en traduction française en 1973, aux Éditions du Seuil _ paru, donc, en polonais en 1967, il forme l’ultime volet d’un triptyque galicien (ou podolien ?..) avec Le Crépuscule d’un monde, paru en polonais en 1962 et traduit aux Éditions du Seuil en 1966, et L’Île du salut, paru en polonais en 1965 et jamais traduit, lui, en français _ ;

mais aussi le très puissant _ en sa capacité (poétique) de dérouter… _ L’état d’apesanteur, d’Andrzej Kusniewicz _ autre grand écrivain polonais, né en 1904 à Sambor, en Galicie (polonaise entre 1921 et 1939), et mort en 1993 (il fut aussi diplomate, notamment en France, avant 1939, puis de 1945 à 1950 ; résistant sur le territoire français, il est passé par Mauthausen…) : auteur que j’ai découvert juste auparavant la parution de ce livre singulier important, en 1979, aux Éditions Albin Michel, à l’occasion de la lecture du très beau (et baroquissime) Roi des Deux-Siciles, bien reconnu de la critique, en 1978 : il s’y agit des jours autour de l’attentat de Sarajevo, l’été 14, en une garnison austro-hongroise, sur la rive du Danube à l’entrée des Portes-de-fer, face la Serbie et non loin de Belgrade… _ ;

et encore l’extraordinairement bouleversant Histoire d’une vie, de Aharon Appelfeld _ l’auteur (né le 16 février 1932 à Jadova, tout près de Czernowitz, en Bukovine alors roumaine, qui a survécu, enfui et caché jusque dans les forêts d’Ukraine, entre 1939 et 1945…) qui, de tous les écrivains que j’ai physiquement rencontrés, est celui qui m’a le plus impressionné (par la grandeur-puissance-autorité souveraine (!!!) de son expression), et alors même qu’il s’exprimait en hébreu, et n’était qu’ensuite traduit : lors de deux conférences en suivant, le même soir, le 19 mars 2008, l’une à la librairie Mollat, l’autre au Centre Yavné ;

et je lui avais demandé ce qu’il pensait de l’œuvre de son « voisin » de Czernowitz Gregor Von Rezzori (né, lui, le 13 mai 1914, la Bukovine étant alors hongroise), l’auteur des Mémoires d’un antisémite, et surtout du très beau Neiges d’antan (des souvenirs éblouis de sa toute prime enfance, à Czernowitz ; la réponse de Aharon Appelfeld fut sans appel !

Sur ce « monde » de Czernowitz (la ville natale aussi du très grand Paul Celan), lire aussi le riche, fouillé et passionnant Poèmes de Czernowitz, aux Éditions Laurence Teper, paru en 2008…

Plus récemment, j’ai eu la chance de rencontrer _ et pu m’entretenir personnellement avec lui : j’étais allé le chercher avec ma voiture à l’aéroport ; et le soir ai dîné avec lui (et Georges Bensoussan), lors de sa venue à Bordeaux pour le colloque organisé en liaison avec le CRIF « Les Enfants dans la guerre _ réparer l’irréparable » le 31 janvier 2008 ; une rencontre majeure ! _ le père Patrick Desbois, l’auteur de l’indispensable (!!!) Porteur de mémoires, en ces « Terres de sang » des actuelles _ c’est-à-dire depuis la découpe (stalinienne) des frontières de 1945 _ Ukraine et Biélorussie, dans lesquelles il poursuit son (infiniment patient) méthodique recueillement des témoignages des derniers « témoins » encore en vie de la « Shoah par balles« , afin aussi de pouvoir, en retrouvant les fosses d’abattage, donner enfin quelque sépulture un peu digne, avec _ si possible… _ des noms, à ceux qui furent assassinés d’une balle dans la nuque, dans ces fosses, puis dont les restes furent déterrés afin d’être brûlés, un peu plus tard, à la va-vite, lors de l’opération d’effacement des traces (du crime), dirigée par Paul Blobel, dite « Action 1005 » _ selon le mandat en date du 28 février 1942 d’« effacer les traces des exécutions des Einsatzgruppen à l’Est« , pour commencer ; il y eut ensuite aussi la destruction des usines de la mort du territoire polonais : Belzec, Sobibor, Majdanek, Treblinka, Chelmno et enfin Auschwitz… _, qui se déroula de juillet 1942 à 1944, pressée par les avancées de l’Armée rouge


Et j’ai lu avec une très intense admiration _ presque jalouse _, en 2008, le très beau travail d’enquête sur place, à Bolechov (en Galicie autrefois polonaise, dans l’arrondissement de Stanislawow ; en Ukraine aujourd’hui), ainsi que dans le monde entier (à la recherche de témoins encore vivants des Aktions de 1942-1943-1944…), de Daniel Mendelsohn : Les Disparus… Un livre d’articulation entre mémoire et Histoire, splendide !


De même que cette année-ci, je me suis passionné (et ai pu m’en entretenir un peu avec l’auteur lors de sa venue à Bordeaux) pour le travail d’enquête _ notamment à Wlodawa, à la frontière actuelle (depuis 1945) de la Pologne avec la Biélorussie et l’Ukraine _ d’Ivan Jablonka : Histoire des grands-parents que je n’ai jamais eus _ une enquête, parue aux Éditions du Seuil en janvier 2012 _ cf mon article d’avril dernier : Entre mélancolie (de l’Histoire) et jubilation de l’admiration envers l’amour de la liberté et la vie, le sublime (et très probe) travail d’enquête d’Ivan Jablonka sur l’ »Histoire des grands parents que je n’ai pas eus »

Mais, par sa méthode croisée, son écriture extrêmement fine dans le détail _ au scalpel _ de ses 628 pages si riches d’analyse, en surplomb d’une immense érudition historiographique en diverses langues _ cf aussi l’imposante (et très précieuse) bibliographie des pages 633 à 682 _,

le travail d’historien _ de démêlage très fin de la complexité historique des faits advenus _ de Timothy Snyder en ce si riche, éminemment sensible  _ = humainement ! « Humanité«  est ainsi on ne peut plus justement l’intitulé de la « Conclusion » ; et d’ores et déjà (même si j’y reviendrai à la fin ce l’article) je veux citer (et un peu commenter, au passage) ici son ultime paragraphe, page 614 :

« Les régimes nazi et soviétique transformèrent des hommes _ vivants ! _ en chiffres _ de cadavres ; et même en chiffres ronds ! mais ce sont là plutôt des pratiques de résumeurs (à la louche…)… _ : certains que _ faute d’archives disponibles _ nous ne pouvons _ aujourd’hui _ qu’estimer, d’autres que nous pouvons recalculer avec assez de précision. Il nous appartient à tous, chercheurs _ = historiens de profession _, d’essayer de les établir _ le plus sérieusement possible, ces chiffres de massacrés, d’abord, face aux mensonges et tripatouillages idéologiques en tous genres : et encore aujourd’hui, de la part, d’abord, des divers nationalismes toujours actifs… _ et de les mettre en perspective _ afin de comprendre, en historiens (par la mise en perspective), les faits advenus ; historiens dont c’est même là, bien sûr !, l’essentiel de l’œuvre à réaliser ; en nous méfiant (toujours !) des simplifications (pédagogiques et trop pressées) des résumés… Et à nous, humanistes _ ajoute alors splendidement Timothy Snyder, et c’est là le dernier mot de tout ce livre, qu’il place ainsi dans cette perspective de fond proprement essentielle !!! _, de retransformer ces chiffres en êtres humains _ c’est-à-dire de « retransformer » ces énumérations (de cadavres, devenus dans cet assassinat de masse, anonymes) listées, qui le plus souvent répondaient, à l’origine, à des quotas (!) requis d’assassinés, tant de la part des dirigeants et bourreaux (et leurs exécutants) soviétiques que des dirigeants et des bourreaux (et leurs exécutants) nazis ; de les « retransformer« , donc, en figures (irremplaçablement uniques, elles) de personnes humaines parfaitement singulières, quand c’est possible, au gré de (trop rares) témoignages recueillis et conservés, en les nommant avec leurs noms et prénoms :

cf ainsi ceux donnés, page 574, en ouverture de cette « Conclusion » intitulée « Humanité« , en réponse aux exemples laissés sans nom du tout début de la « Préface«  (intitulée « Europe« ), pages 9 et 10 :

Józef Sobolewski, Stanislaw Wyganowski, Adam Solski, Tania Savitcheva, Junita Vichniatskaïa ;

et en donnant à entendre, quand c’est encore possible, le détail, à la lettre près, de ce qui demeure de leur voix ou de leurs gestes… :

Jozef est un petit garçon mort de faim sur une route d’Ukraine en 1933 (et c’est sa sœur Hanna qui se souvient de lui) ;

Stanislaw est un jeune Soviétique abattu lors de la Grande Terreur en 1937-38 (et c’est une lettre conservée qui témoigne de lui) ;

Adam est un officier polonais exécuté par le NKVD en 1940 (et c’est son Journal qui fut retrouvé plus tard à Katyn) ;

Tania est une petite fille russe de onze ans morte de la faim à Leningrad en 1941 (et c’est l’une de ses sœurs qui survécut qui conserva son Journal) ;

et Junita est une petite fille juive de douze ans assassinée en Biélorussie en 1942 (et on conserve d’elle sa dernière lettre à son père)…

Si nous ne le faisons pas, Hitler et Staline auront façonné non seulement notre monde _ de comptables utilitaristes pragmatiques vendus à la marchandisation de tout !.. _,

mais aussi notre humanité «  _ même !.. On mesure l’importance de pareil enjeu, à mille lieues au-dessus de toute rhétorique… Et c’est sur cette phrase au poids si lourd (toujours aujourd’hui, en 2010-2012) pour nous ! que se clôt cette « Conclusion : Humanité« , et ce livre, de salubrité universelle par là, page 614…

Mais, par sa méthode croisée, son écriture extrêmement fine dans le détail _ au scalpel _ de ses 628 pages _ je les ai lues deux fois par le menu, puis travaillées dans l’écriture au long cours de cet article… _ si riches d’analyses _ irrésumables ! _, en surplomb d’une immense érudition historiographique en diverses langues,

le travail d’historien _ de démêlage (très fin) de la complexité historique des faits advenus _ de Timothy Snyder en ce si riche, éminemment sensible

et plus encore justissime, Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline,

vient combler enfin une pénible (et très douloureuse) lacune historiographique concernant cette partie de notre Europe _ effroyablement prise « entre Hitler et Staline« , alors ; et avec ce nombre considérable de pertes d’humains… _,

qui a tenu en grande partie, mais pas seulement, au fait du rideau de fer _ demeuré en place, après la mort de Staline, le 5 mars 1953,  jusqu’en novembre 1989, où il céda enfin… _ ;

mais aussi qui a interdit toute approche sérieuse _ suffisamment croisée et entrecroisée… _  à la fois de ce qui demeure d’archives dans l’ancienne URSS, ainsi que dans les États demeurés jusque là sous sa férule

_ concernant cette lourde et durable (= post-stalinienne) férule, je suis aussi un lecteur fervent de tout l’œuvre (avant comme après le tournant décisif de 1989…) d’Imré Kertész, dont le chef d’œuvre est peut-être, entre tous, Liquidation : sur cette férule soviétique à Budapest, lire de Kertész tant son Journal de galère que son roman Le Refus ; et encore le merveilleux (de justesse) tryptique (dont Le Chercheur de Traces : le récit de retours du narrateur-auteur à Auschwitz, Buchenwald et Zeitz : admirable !!! + Procès-verbal) qu’est Le Drapeau anglais… Sur le sentiment de sa libération de cette férule, en 1989 et les années d’après : toujours de Kertész, lire Un autre _ chronique d’une métamorphose ainsi que, en forme de magistral bilan synthétique, Dossier K... ; Imre Kertész est un des plus grands auteurs vivants aujourd’hui, un de ceux qui nous aident à ressentir « vraiment«  la réalité de ce monde dans lequel nous baignons… _ ;

le travail d’historien de Timothy Snyder en ce si riche Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline, vient combler enfin une pénible (et très douloureuse) lacune historiographique, qui a tenu en grande partie, mais pas seulement, au fait du rideau de fer ; mais aussi qui a interdit toute approche sérieuse

d’une mise en perspective et interprétation _ de fond : jusqu’à une connaissance suffisante et objective : la finalité des historiens ! _ historiographiques qui soient libérées non seulement des querelles et brouillages en tous genres des idéologies partisanes ; mais encore des ignorances et aveuglements liés aux places et angles de vue de nos situations _ et il y a ici aussi assurément bien du travail à mener…

Et cela, Timothy Snyder prend bien soin de le préciser et souligner, en son « Introduction : Europe » comme en sa « Conclusion : Humanité« …

En ce qui concerne, d’abord, les brouillages idéologiques, existe en effet aussi _ encore _ aujourd’hui en 2010-2012 _ une concurrence idéologique des martyrologies revendiquées par les divers nationalismes (et systèmes socio-politiques, aussi) florissants, tirant à eux, les uns et les autres, la couverture des chiffres _ distordus : le premier travail ici de Timothy Snyder est bien d’essayer de les « établir«  sainement, ces nombres de victimes revendiquables par telle ou telle nationalité : et il y consacre, juste après sa « Conclusion« , une utile synthèse (de résumé) finale, « Chiffres et terminologie« , pages 615 à 620 pour les chiffres ; de même qu’il y précise sa terminologie, pages 620 à 624 : notamment son refus du terme de « génocide » (il lui préfère « meurtre politique de masse« ), ainsi que sa préférence pour « Holocauste«  (il ne mentionne pas le terme de « Shoah » : veut-il donc l’ignorer ?)… _

tirant à eux, les uns et les autres, la couverture des chiffres

des victimes-martyrs de ces « crimes politiques de masse » _ soviétiques et nazis _ à afficher-exhiber à leur profit ;

de même, ensuite et aussi, qu’existe une cécité quasi générale tenant au caractère toujours partiel et géo-centré, forcément, des _ les nôtres aussi ! _ angles de vue et perspectives, en fonction de nos emplacements géographiques et référentiels culturels _ avec aussi une bonne rasade de mauvaise conscience… _, et empêchant un regard assez surplombant (et croisé) d’une historiographie sérieuse _ « scientifique« , si l’on veut _ suffisamment déprise, déjà, des enjeux idéologiques partiaux et partisans, toujours actifs _ d’où l’urgence toujours, aussi, de ce travail d’aggiornamento, en cette seconde décennie du XXIe siècle, à propos de l’Histoire de ces « Terres de sang », entre 1933 et 1945 : soixante-cinq ans plus tard, en 2010 ! _ ;

une historiographie sérieuse

seule capable de faire accéder à l’intelligence objective _ sereine :mieux apaisée peut-être _, de ces « crimes politiques de masse« , eux-mêmes tellement entremêlés et croisés, interactifs ;

et clé indispensable afin _ nous y arrivons ! _ de « comprendre notre époque

et nous comprendre nous-même« .

Cette dernière formule, absolument décisive pour l’enjeu anthropologique et civilisationnel de cet immense travail, se trouve à la page 574 :

« Il faut comparer les systèmes nazi et stalinien non pas tant pour comprendre l’un ou l’autre _ en lui-même ; ni pour seulement les comparer entre eux, à leur place au XXe siècle… _ que pour comprendre notre époque _ aussi, soit soixante-cinq ans plus tard que 1945, en 2010 _ et nous comprendre nous-même« … Rien moins !

Constat qui donne, traduit en langage _ éditorialement efficace _ de quatrième de couverture :

« Par sa démarche novatrice, centrée sur le territoire, son approche globale, la masse de langues utilisées, de sources dépouillées, l’idée même que les morts ne s’additionnent pas _ en tant que personnes irréductiblement singulières, chacun ; et à l’encontre des listes, des totaux et des quotas ! qui, en écriture de chiffres, les effacent sous la forme de ces nombres (a fortiori quand ils sont ronds !) que réclament les misérables « personnels«  carriéristes (à cette époque, nazis comme soviétiques) : toute une Histoire est à écrire des usages intéressés et marchands des mathématiques et des sciences appliquées, depuis le début du XVIIe siècle en particulier, à partir de Francis Bacon, Galilée (« La Nature est écrite en langage mathématique« ), Descartes (et sa « mathesis universalis« ), et bientôt les utilitaristes, en commençant par Adam Smith… ; et sur la prééminence (et impérialisme conquérant) du quantitatif sur le qualitatif !.. _,

Timothy Snyder offre ici un grand livre _ et pour moi, c’est là encore, seulement, un euphémisme… _ en même temps qu’une méditation _ au plus haut de l’« humain«  _ sur l’écriture de l’Histoire«  _ on ne saurait mieux dire ! Je viens d’en démêler quelques éléments…

C’est pour cela que, oui, décidément !, « il faut comprendre les systèmes nazi et stalinien, non pas tant pour comprendre l’un ou l’autre, que pour comprendre notre époque et nous comprendre nous-mêmes« , énonce l’auteur, et rien moins ! _ je le répète _, page 574, au début de sa « Conclusion : Humanité ».

Et encore, page 579 :

« il nous faut comprendre ce qui s’est réellement passé _ et cela nécessairement dans le détail précis du comment (enchevêtré, donc) de ces faits : ce à quoi se consacre l’essentiel de ce livre magnifique le long de ses 628 pages ! _, dans l’Holocauste _ en particulier, mais pas seulement, loin de là : d’autres « meurtres politiques de masse«  (de civils désarmés) venant non seulement s’y adjoindre, mais aussi s’y combiner et enchevêtrer ; qui commencèrent dès 1932-1933… _ et dans les Terres de sang.

Pour l’heure _ en cette première décennie du troisième millénaire où fut conçu et rédigé, puis publié (en 2010) Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline, souligne ainsi Timothy Snyder_,

l’époque des tueries massives _ de civils désarmés _ en Europe _ qui va de 1932-33 à 1945 _ est surthéorisée et mal comprise« …

Et c’est à cela qu’il faut donc historiographiquement remédier maintenant, pour Timothy Snyder…


Et Timothy Snyder de préciser alors combien les représentations à l’Ouest de ce qui a pu survenir dans les « Terres de sang » en fait de « meurtres politiques de masse » du fait de ces deux régimes, le nazi et le stalinien, et plus encore de leur diaboliquement effroyable interconnexion « complice« ,

sont faussées, par une insuffisante connaissance et évaluation,

du fait, d’une part, de la dimension colossale, certes, des mensonges et nazis _ cf par  exemple le très intéressant travail de Florent Brayard : Auschwitz : enquête sur un complot nazi ; ainsi que mon article sur ce livre : Le travail au scalpel de Florent Brayard sur les modalités du mensonge nazi à propos du meurtre systématique des Juifs de l’Ouest : le passionnant « Auschwitz, enquête sur un complot nazi »… _ et staliniens ;

mais aussi du fait de l’excessive valorisation par l’opinion occidentale, en regard de ces « meurtres politiques de masse« ,

d’une part des images-représentations _ = clichés _ des camps de concentration, tels que Dachau, Bergen-Belsen ou Buchenwald (du fait des récits de prisonniers de retour de ces camps-là),

mais aussi et d’autre part, des images-représentations de ce double camp de concentration et usine de mort immédiate que fut Auschwitz-Birkenau (du fait des récits de survivants du camp de travail d’Auschwitz, tel un Primo Levi ; mais encore ceux de _ plus rares ! _ survivants des Sonderkommandos de Birkenau, tel un Filip Muller, en son Trois ans dans une chambre à gaz d’Auschwitz ; témoignages auxquels il faut encore ajouter, cette fois par de-là leur mort à Birkenau, ceux du déchirant _ sublimissime ! il faut absolument le découvrir ! _  recueil intitulé Des Voix sous la cendre, de ceux des membres des Sonderkommandos qui ont enfoui dans des bouteilles sous la cendre ce qu’ils voulaient laisser de témoignage à la postérité !.. ;

même si la diffusion, et plus encore la réception par un large public, des récits des rescapés d’Auschwitz, prit elle-même beaucoup de temps _ ces récits demeurant alors, et pour un long moment, proprement inaudibles _, par rapport à la diffusion et réception des récits de prisonniers des camps de concentration, et aussi de ceux de résistants, dans l’immédiat après-guerre : ce fut à partir du retentissement mondial du procès d’Adolf Eichmann, à Jérusalem, en 1961, que se déclencha leur audibilité… ; cf par exemple l’histoire de la réception de Si c’est un homme de Primo Levi ; ainsi que l’important et très beau travail historiographique d’Annette Wieviorka : L’Ère du témoin). Lire aussi le très important _ sublime ! _ dernier écrit de méditation _ juste avant sa mort _ de Primo Levi, Les Naufragés et les rescapés _ quarante ans après Auschwitz…).

Et Timothy Snyder consacre à ces représentations-« souvenirs écrans » en Europe occidentale comme outre-Atlantique, de fort utiles pages…

« L’image _ qui nous est familière _ des camps de concentration allemands _ fonctionnant _ comme pire élément du nazisme, est une illusion,

un mirage noir dans un désert inconnu« , énonce ainsi Timothy Snyder, page 577.

Si « ces camps nous sont familiers« , c’est parce que « ils ont été décrits par des survivants, des gens promis à mourir au travail, mais qui ont été libérés à la fin de la guerre _ et qui ainsi ont pu en témoigner : ainsi par exemple, le prisonnier Robert Antelme, L’Espèce humaine ;

cf aussi, entre les beaux récits rétrospectifs qui ont jalonné la méditation rétrospective de Jorge Semprun (tels Le Grand voyage, en 1963, L’Écriture ou la vie, en 1994 : le mieux reçu de tous…), mon préféré : Quel beau dimanche ; remarquons aussi, au passage, que l’auteur y procède (serait-ce là une raison de la relative cécité du public à l’égard de cet opus, pourtant majeur, de Jorge Semprun, lors de sa parution, en 1980 ?..) à une comparaison de ce qu’il avait pu vivre et subir du stalinisme comme du nazisme…

La politique allemande d’extermination de tous les Juifs d’Europe fut mise en œuvre non pas dans les camps de concentration, mais au bord des fosses, dans des fourgons à gaz, et dans les usines  de la mort de Chelmno, Belzec, Sobibor, Treblinka, Majdanek et Auschwitz » _ toutes et tous situés dans les « Terres de sang » de l’Europe orientale… _, page 578.

Certes « Auschwitz fut bien un site majeur de l’Holocauste : c’est là que près d’une victime juive sur six trouva la mort _ et donc plus de cinq autres victimes juives sur six, ailleurs qu’à Auschwitz-Birkenau ; et plus à l’est pour la plupart…

Mais quoique l’usine de la mort d’Auschwitz fût la dernière installation à fonctionner, elle ne marqua pas l’apogée de la technologie de la mort : les pelotons d’exécution les plus efficaces tuaient plus vite, les sites d’affamement tuaient plus vite, et Treblinka tuait plus vite.

Auschwitz ne fut pas non plus le principal centre d’extermination des deux plus grandes communautés juives d’Europe, les Polonais et les Soviétiques. Quand Auschwitz devint la plus grande usine de la mort, la plupart des Juifs soviétiques et polonais sous occupation allemande avaient déjà été assassinés » ;

et « au printemps de 1943, plus des trois-quarts des Juifs victimes de l’Holocauste étaient déjà morts.

En fait, l’écrasante majorité de ceux qui allaient être délibérément tués par les régimes soviétique et nazi _ soient 14 millions de civils (et prisonniers de guerre : désarmés), selon le bilan de Timothy Snyder _, bien plus de 90%, avaient déjà été tués quand ces chambres à gaz de Birkenau  commencèrent leur travail meurtrier« , pages 578-579.

« Auschwitz (n’) est (donc, en quelque sorte, que) la coda de la (très longue) fugue (ou obstinato) de la mort « , résume ce point Timothy Snyder, page 579.

« Ces malentendus _ qu’il importe urgemment de dissiper ! en 2010-2012, face à l’induration des cynismes (et leurs tentations criminelles à grande échelle…) de la « marche du monde«  _ concernant les sites et les méthodes de meurtre de masse,

nous empêchent de percevoir _ et comprendre enfin ! _ l’horreur du siècle _ passé ; ainsi que ce qui, dans ce passé, risque aussi, encore, de « ne pas passer« ..

C’est donc l’obstacle de « ces malentendus« -là qu’il faut surmonter aujourd’hui, afin de parvenir à enfin « voir, pour peu que nous le souhaitions, l’Histoire de l’Europe entre Hitler et Staline« , selon une expression de Timothy Snyder, page 571 ;

et la comprendre.

Les images _ et leur considérable impact de diffusion-réception ; cf ici les essentiels travaux de longue haleine de Georges Didi-Huberman _ de ces camps, sous formes de photographies ou de textes en prose _ les deux ! _, ne font que suggérer _ mais bien trop partiellement, et par là bien trop superficiellement : inadéquatement ! au lieu de la construire rigoureusement, comme le font (surmontant les idéologies) de vrais historiens… _ l’histoire des violences _ parmi lesquelles les « meurtres politiques de masse«  _ allemandes et soviétiques.« 

Et « si horrible qu’il soit, le sort des détenus des camps de concentration diffère de celui des millions de gens gazés, exécutés ou affamés« , nous prévenait déjà Timothy Snyder en ouverture de son travail, aux pages 15-16 de sa belle et juste « Préface : Europe« …

Et encore, pages 17-18 :

« Les camps de concentration allemands et soviétiques entourent _ à l’ouest et à l’est _ les Terres de sang, brouillant _ pour nous, occidentaux _ le noir _ de sang de celles-ci _ de leurs diverses nuances de gris.

A la fin de la seconde guerre mondiale, les forces américaines et britanniques libérèrent des camps de concentration comme Belsen et Dachau, mais les Alliés occidentaux ne libérèrent aucune des grandes usines de la mort _ situées plus à l’est.  Les Allemands mirent en œuvre tous leurs grands projets de tuerie sur des terres par la suite _ et pour longtemps ! _ occupées par les Soviétiques _ et leurs affidés, et cela, au moins jusqu’à la chute du rideau de fer en novembre 1989 ; mais quid encore aujourd’hui du régime de la Biélorussie ? Et même des remous politiques qui ne cessent de secouer l’Ukraine ?.. Même si ces territoires furent alors (enfin !) davantage accessibles !.. C’est l’armée rouge qui libéra Auschwitz, comme elle libéra les sites de Treblinka, Sobibor, Belzec, Chelmno et Majdanek.

Les forces américaines et britanniques n’atteignirent aucune des Terres de sang et ne virent _ donc _ aucun des sites de tuerie.

Ce n’est donc pas seulement que ces forces ne virent aucun des lieux où les Soviétiques tuèrent, au point qu’il fallut attendre la fin de la guerre froide et l’ouverture des archives pour étudier les crimes du stalinisme. Le fait est qu’elles ne virent jamais non plus (voilà !) les lieux où les Allemands tuèrent, au point qu’il fallut tout aussi longtemps pour comprendre _ rien moins !!! _ les crimes de Hitler _ sur ce plan, je dois noter que nulle part Timothy Snyder ne mentionne le formidable travail et d’images et de témoignages ! (et toujours liés les deux !…) du film Shoah, de Claude Lanzmann ; de même qu’il n’utilise jamais le mot « Shoah » ; ni s’en explique…


C’est par les photographies et les films
_ documentaires _ des camps de concentration allemands que la plupart des Occidentaux devaient _ seulement _ se faire une idée _ forcément biaisée ainsi (sinon idéologique !..) _ des tueries. Or, si horribles que soient ces images, elles ne donnaient qu’un aperçu _ partiel, biaisé et gravement inadéquat ! _ de l’Histoire _ comme toujours à construire, elle : à problématiser et penser vraiment ! telle est la tâche (de probité scientifique) des vrais historiens… _ des Terres de sang _ de cette malheureuse Europe plus à l’est…

Elles ne sont pas _ toutes ces images, autant celles photographiques et cinématographiques que celles intellectuelles et littéraires, toutes ces représentations (= trop dépendantes de clichés ; et de longtemps incrustés, qui plus est…) _ toute l’Histoire,

elles ne sont même pas une introduction« … _ mais des images-écrans nuisant à la lucidité toujours nécessaire…

Une autre très importante difficulté de l’intelligence de ce qui s’est passé là, vient du poids _ en partie paradoxalde l’héritage _ vivace par ce pragmatisme cynique-là au moins… _ de ces deux régimes nazi et soviétique (bien que, et l’un et l’autre, défaits !) sur ce que je nommerai la « marche du monde«  _ en reprenant une expression de Jean Giono, par exemple dans Un Roi sans divertissement ; cf aussi le TINA (« There is no alternative« ) des Thatcher et autres Reagan : soit la nouvelle Vulgate depuis les années 80 du siècle dernier… _ comme il va encore aujourd’hui, en matière d’efficacité politique : même si se sont raréfiés, mais sans disparaître complètement (!) de tels « crimes politiques de masse« , demeurent encore en notre monde contemporain, en 2010-2012, bien des sas et bien des échelons dans le nuancier des degrés de violence pratiquée à des fins de stricte efficacité politique…

Mais les menaces d’outrepasser ces sas et degrés de violence-ci, demeurent bel et bien, çà et là, en fonction de l’insuffisance, ou faiblesse, de démocratie vraie, là où celle-ci est instituée ; et en fonction des régimes autoritaires et autocratiques ailleurs _ qu’en est-il, ainsi, des régimes qui ont succédé à l’Union soviétique, en Ukraine, Biélorussie et Russie même, aujourd’hui, en ces territoires qui ont fait partie des « Terres de sang«  d’entre 1933 et 1945 ?..

Page 23, Timothy Snyder cite Hannah Arendt, en 1951, dans Les Origines du totalitarisme : « pour continuer à exister _ au lieu de se dissiper et dissoudre, dans les esprits ; mais il lui faut auparavant, pour exister même, avoir été construite ! _, la réalité des faits (factuality) en elle-même dépend de l’existence du monde non totalitaire » _ qui en fait une valeur, celle de justesse, sacrée : au confluent de la vérité et de la justice !, dans la filiation la plus puissante des Lumières…

Ajoutant : « Le diplomate George Kennan fit la même observation plus simplement à Moscou, en 1944 : « Ici, ce sont les hommes qui déterminent ce qui est vrai et ce qui est faux » »…

Et Timothy Snyder d’interroger alors _ à la George Orwell en 1948 dans 1984 _ : « la vérité n’est-elle rien de plus qu’une convention du pouvoir ? ou les récits historiques véridiques peuvent-ils résister au poids de la politique ?

L’Allemagne nazie et l’Union soviétique s’efforcèrent de dominer l’Histoire elle-même _ c’est-à-dire, ici, la discipline œuvre des historiens : on connaît ainsi les tripatouillages des rééditions des encyclopédies soviétiques, jusqu’au charcutage (au fur et à mesure des purges ou des assassinats) des photos des dirigeants (cf, par exemple, les cas de Iagoda, Iejov, Jdanov, Goglidzé, Abakoumov, Rioumine, etc. ; cf page 560 : « dans ses vieux jours, Staline se débarrassait de ses chefs de la sécurité après qu’ils avaient mené à bien une action de masse, puis il leur reprochait ses excès« …) à effacer des mémoires !..

L’Union soviétique était un État marxiste, dont les dirigeants se proclamèrent « scientifiques de l’Histoire ». Le nazisme était une vision apocalyptique de transformation totale, à réaliser par des hommes qui croyaient que la volonté et la race pouvaient délester du poids du passé« .

Pour en conclure, toujours page 23 :

« Les douze années de pouvoir nazi _ de 1933 à 1945 _ et les soixante-quatorze années de pouvoir soviétique _ de 1917 à 1991 _ pèsent certainement (!) lourd sur notre capacité _ aujourd’hui ! en 2010-2012… _ d’évaluer le monde« .

Or il se trouve que « beaucoup de gens pensent que les crimes du régime nazi étaient si grands qu’ils se situent hors de _ portée de la compétence de _ l’Histoire«  _ des historiens.

Et Timothy Snyder de commenter, page 24 : « On a là un écho troublant de la croyance hitlérienne du triomphe de la volonté sur les faits « …

Tandis que « d’autres affirment que les crimes de Staline, si horribles soient-ils, étaient justifiés par la nécessité _ toute pragmatique et machiavélienne (mais allant ici jusqu’à justifier le machiavélisme !) : pas d’omelette sans casser des œufs ! et Timothy Snyder de citer, page 603, un proverbe russe similaire, donné par une co-détenue de Margarete Buber-Neumann, au Goulag, à Karaganda : « où l’on rabote, les copeaux tombent«  (rapporté dans Prisonnière de Staline et d’Hitler)… _ de créer ou de défendre un État moderne.

Ce qui rappelle l’idée de Staline que l’Histoire ne suit qu’un seul cours _ dépourvu de la moindre alternative que ce soit… _, qu’il comprit, et qui légitime rétrospectivement sa politique« …

« À moins d’une Histoire _ historienne et historiographique _ construite et défendue sur des fondements entièrement différents, nous constaterons que Hitler et Staline continuent _ en 2010-2012 _ de définir pour nous _ dans les opinions majoritaires du public d’aujourd’hui… _ leurs propres œuvres« … Voilà le danger !!!

Et alors Timothy Snyder de formuler de puissants et très fondamentaux principes de l’historiographie qu’il entend mener, page 24 :

« Que pourrait être cette base ?

Bien que cette étude mobilise l’Histoire militaire, politique, économique, sociale, culturelle et intellectuelle,

ses trois méthodes fondamentales sont simples :

1) le rappel insistant qu’aucun événement du passé n’est _ jamais ! _ au-delà de la compréhension historique _ des historiens _, ni hors de portée de l’investigation historique _ historienne, ou historiographique _ ;

2) une réflexion sur la possibilité _ parfaitement réelle, toujours ! _ d’autres choix _ existentiels que ceux effectués de facto, sur le vif du tourbillon de l’action, par les acteurs (dirigeants décideurs, bourreaux exécuteurs, simples témoins, ainsi, aussi, bien sûr !, que les victimes, face au piège de la nasse qui se refermait sur eux tous…) de l’Histoire _ et l’acceptation _ anthropologique en quelque sorte, en son droit ! _ de la réalité irréductible du choix _ et donc d’une irréductible, aussi, capacité de liberté (en des proportions, bien sûr, variables et variées) de chacun et de tous (= universelle ! de droit !, quelles que soient les situations : y compris les souricières et les nasses !) : à laquelle veut répondre d’abord, semble-t-il du moins, l’institution, de fait, des démocraties… _ dans les affaires humaines ;

et 3) une attention rigoureusement chronologique à toutes les politiques staliniennes et nazies _ s’entremêlant souvent, sinon toujours, le plus cyniquement du monde ; ainsi qu’à l’entremêlement toujours particulier et fin (à démêler !) des divers facteurs à l’œuvre dans chacune des situations et actions particulières menées par ces pouvoirs totalitaires… _ qui tuèrent de grands nombres _ 14 millions ! _ de civils et de prisonniers de guerre« …


Quant à la « géographie humaine des victimes« ,

« les Terres de sang n’étaient pas un territoire politique, réel ou imaginaire ; c’est simplement là _ en cette gigantesque double souricière-nasse tendue par ces deux régimes totalitaires… _ que les régimes européens les plus meurtriers accomplirent leur œuvre meurtrière« …

« Des décennies durant, l’Histoire nationale _ juive, polonaise, ukrainienne, biélorusse, russe, lituanienne, estonienne, lettonne _ a résisté _ chacune pour elle-même et à part des autres _ aux conceptualisations nazies et soviétiques _ très univoques, les deux ; et c’est un euphémisme ! _ des atrocités. L’Histoire de ces Terres de sang a été _ ainsi _ conservée _ séparément _, de manière souvent intelligente et courageuse, en divisant le passé européen en parties nationales, puis en tenant ces sections bien séparées les unes des autres.

Mais l’attention à un seul groupe persécuté quel qu’il soit, et si bien faite que soit son Histoire, ne saurait rendre compte _ avec la justesse absolument nécessaire _ de ce qui s’est produit _ en sa complexité enchevêtrée _ en Europe entre 1933 et 1945.

Une parfaite connaissance du passé ukrainien ne donnera pas les causes de la famine. Suivre l’Histoire de la Pologne n’est pas la meilleure façon de comprendre pourquoi tant de Polonais furent tués au cours de la Grande Terreur. La connaissance de l’Histoire biélorusse ne saurait dégager le sens des camps de prisonniers de guerre et des campagnes contre les partisans qui firent tant de victimes parmi les Biélorusses. Une description de la vie juive peut faire une place à l’Holocauste, pas l’expliquer.


Souvent, ce qui arriva à un groupe n’est compréhensible qu’à la lumière
_ à faire impérativement interférer, donc : multi-focalement ! par une historiographique elle-même plurielle et multi-focale… _ de ce qui était arrivé à un autre _ là débute peut-être l’avantage de l’extra-territorialité européenne, mais aussi très cultivée (cf la richesse de sa bibliographie, en diverse langues), de Timothy Snyder.


Mais ce n’est là que le début des liens.

Les régimes soviétique et nazi doivent eux aussi être compris à la lumière des efforts _ dans le feu des actions entreprises, ces années-là du XXe siècle _ de leurs dirigeants pour maîtriser ces territoires, mais aussi de la vision _ et des clichés (ethno-racistes) _ qu’ils avaient de ces groupes et de leurs relations les uns avec les autres.

Et Timothy Snyder de conclure sa belle « Préface : Europe » :

« De nos jours, on s’accorde largement à reconnaître que les carnages du XXe siècle sont de la plus grande valeur morale _ mais aussi, et plus largement, anthropologique (et civilisationnelle) _ pour le XXIe.

Il est d’autant plus frappant qu’il n’existe pas _ jusqu’à ce travail monumental et fondamental-ci de Timothy Snyder _ d’Histoire des Terres de sang.

Les tueries dissocièrent l’Histoire juive de l’Histoire européenne, et l’Histoire est-européenne de l’Histoire ouest-européenne _ cf l’important, mais tragiquement inentendu alors, Une autre Europe de Czseslaw Milosz, en 1963 ; de même que tous les appels de la Pologne résistante durant la guerre (cf le témoignage terrible et passionnant du résistant Jan Karski : Mon témoignage devant le monde _ souvenirs (1939-1943).

Si le meurtre n’a pas fait les nations, il continue de conditionner _ hélas, en effet ! l’Europe qui s’est construite est celle des intérêts (et égoïsmes bien compris) économiques nationaux ; pas une Europe de la culture… _ leur séparation intellectuelle, des décennies après la fin du nazisme et du stalinisme.

Cette étude _ annonçait ainsi Timothy Snyder, page 25 _ réunit _ c’est-à-dire articule et dés-emmêle, et très précisément : au scalpel, leurs relations nouées tant sur le terrain (de ces « meurtres politiques de masse« , et à si gigantesque échelle !), que dans les esprits des dirigeants et donneurs d’ordre, de façons éminemment complexes ! _ les régimes nazi et soviétique, mais aussi l’Histoire juive et l’Histoire européenne, ainsi que les Histoires nationales. Elle décrit _ par un détail d’analyse et reconstitution de la complexité des faits véritablement passionnant : j’ai lu deux fois les 628 pages d’analyses avec une intensité passionnée jamais relâchée ni déçue, mais a contrario toujours accrue !! C’est un immense livre ! _ les victimes, et les bourreaux.

C’est une Histoire de gens tués par les politiques de dirigeants lointains _ demeurés à Moscou et à Berlin, pour l’essentiel : à l’extérieur et le plus loin possible de ces territoires où mourraient, hors de leur regard à eux (qui ne lisaient que les chiffres des nombres de victimes de ces tableaux de chasse), les commanditaires de ces massacres en masse, quatorze millions de victimes civiles (ou de prisonniers désarmés : en plus, bien sûr, des millions de soldats lors des actions militaires de la guerre). Les patries des victimes se situent entre Berlin et Moscou ; elles devinrent les Terres de sang après l’essor _ avant 1932-1933 : et le chapitre « Introduction _ Hitler et Staline« , pages 27 à 51, le détaille... _ de Hitler et de Staline« , pages 24 et 25…

Voilà ce qui rendait nécessaire et urgent ce (magnifique) travail-ci de Timothy Snyder !

Quant au bilan des nombres des victimes assassinées (en masse) pour des raisons identitaires, souvent d’après fichages préalables (fort méthodiquement organisés !..),

on le découvrira tout du long, et en particulier dans le chapitre terminal « Chiffres et terminologie« , pour ce qui les concerne, aux  pages 615 à 620…

Mais c’est bien le raisonnement (meurtrier) par chiffrages, qui d’abord fait problème,  à propos de cette modernité nôtre, quand elle cesse de réfléchir aux fins, et aux fondements des valeurs des actions, pour se centrer quasi exclusivement sur l’efficacité _ technico-économique, selon le critère de la rentabilité et du profit, et de la cupidité… _ de ses moyens…

On peut ainsi comprendre que les régimes totalitaires stalinien comme nazi s’en soient d’abord pris, pour les anéantir, aux représentants des élites des Lumières _ par exemple, mais pas seulement, polonais _ ainsi que des civilisations du livre et de la connaissance _ par exemple, mais pas seulement, juifs…

Que ce soit, comme les Nazis, pour éradiquer, à plus ou moins long terme, toute altérité _ à leur germanité.

Ou que ce soit, comme les Soviétiques, pour intégrer à leur système _ soviétique _, en les éliminant par l’uniformisation à marche forcée, les moindres différences…

« Le nombre des morts est désormais à notre disposition, plus ou moins précisément, mais il est assez solide pour nous donner une idée _ suffisamment lucide _ de la destruction de chaque régime« , énonce Timothy Snyder page 579 (dans le chapitre « Conclusion : Humanité« ).


« Par les politiques conçues pour tuer des civils ou des prisonniers de guerre, l’Allemagne nazie tua près de 10 millions de personnes dans les Terres de sang (et peut-être 11 millions au total), l’Union soviétique de Staline plus de 4 sur ces mêmes territoires (et autour de 6 millions au total). Si l’on ajoute les morts prévisibles résultant de la famine, du nettoyage ethnique et des séjours prolongés dans les camps, le total stalinien s’élève à près de 9 millions, et celui des nazis à 12 millions peut-être. On ne saurait avoir de chiffres plus précis à cet égard, notamment parce que les millions de civils morts des suites indirectes de la Seconde Guerre mondiale furent victimes, d’une manière ou d’une autre, des deux systèmes » _ à la fois ! _, pages 579-80.

Or il se trouve que « les Terres de sang furent la région _ parmi toutes _ la plus touchée par les régimes nazi et stalinien : dans la terminologie actuelle, Saint-Pétersbourg et la bordure occidentale de la Fédération russe, la majeure partie de la Pologne _ à l’exception de sa partie occidentale (Silésie) et septentrionale (Poméranie, Prusse, Prusse orientale), allemande avant l’invasion du 1er septembre 1939 _, les pays Baltes, la Biélorussie et l’Ukraine.

C’est là que se chevauchèrent et interagirent _ voilà ! _ la puissance et la malveillance _ décuplées ainsi _ des deux régimes« , page 580.


« Les Terres de sang sont importantes non seulement parce que la plupart des victimes y habitaient,

mais aussi parce qu’elles furent le centre _ de massacre organisé _ des grandes politiques qui tuèrent des gens d’ailleurs _ aussi.

Par exemple, les Allemands tuèrent près de 5,4 millions de Juifs. Plus de 4 millions d’entre eux étaient natifs de ces territoires : Juifs polonais, soviétiques _ ukrainiens, biélorusses, et dans une moindre proportion, russes… _, lituaniens et lettons. Les autres _ convoyés jusque là par trains de wagons à bestiaux _ étaient pour la plupart originaires d’autres pays d’Europe orientale. Le plus fort groupe de victimes juives non originaires de la région, les Juifs hongrois, furent exterminés dans les Terres de sang, à Auschwitz. Si l’on considère également _ hors les « Terres de sang«  _ la Roumanie et la Tchécoslovaquie, les Juifs est-européens représentent près de 90 % des victimes de l’Holocauste _ ou Shoah. Les populations juives plus réduites d’Europe occidentale _ dont l’Allemagne elle-même _ et méridionale furent déportées _ elles aussi, hors de chez elles (par trains et en wagons à bestiaux)… _ vers les Terres de sang pour y être _ plus ou moins rapidement ; cf, par exemple, sur le calendrier de la Shoah, les précisions passionnantes du livre de Florent Brayard : Auschwitz _ enquête sur un complot nazi _ mises à mort.

De même que les victimes juives, les victimes non juives étaient originaires des Terres de sang, ou y furent conduites pour y être _ à l’abri de trop de regards occidentaux (y compris allemands)… _ mises à mort.

Dans leurs camps de prisonniers de guerre, à Leningrad et dans d’autres villes _ telle Minsk… _, les Allemands affamèrent _ à mort _ plus de 4 millions de personnes. La plupart des victimes de cette politique d’affamement délibéré, mais pas toutes, étaient originaires des Terres de sang ; peut-être un million étaient des citoyens soviétiques étrangers à la région.

Les victimes de la politique stalinienne de meurtre de masse étaient dispersées à travers le territoire soviétique, le plus grand État de l’Histoire du monde. Malgré tout, c’est dans les terres frontalières de l’Ouest, les Terres de sang, que Staline frappa _ à mort _ le plus fort. Les Soviétiques affamèrent _ en 1932-1933 _ plus de 5 millions d’habitants au cours de la collectivisation, pour la plupart en Ukraine. Ils reconnurent la tuerie de 681 691 personnes dans la Grande Terreur de 1937-1938, dont un nombre disproportionné de Polonais et de paysans ukrainiens, deux groupes présents dans l’ouest de l’URSS _ d’avant le pacte (et partage) germano-soviétique de 1939 _, et donc dans les Terres de sang.

Si ces chiffres ne valent pas comparaison des systèmes, ils sont un point de départ, peut-être obligé« , pages 580-581.


« La clé _ voilà ! _ du nazisme et du stalinisme, s’exclame un des personnages de (Vassili) Grossman _ dans Tout passe... _, c’est leur capacité de priver les groupes humains de leur droit à être considéré comme des hommes. Aussi la seule réponse était-elle de proclamer, sans relâche, que ce n’était tout simplement pas vrai. Les Juifs et les koulaks, « c’étaient  des hommes ! Voilà ce que j’ai compris peu à peu. Nous sommes tous des êtres humains ».

La littérature _ commente Timothy Snyder  _ œuvre ici _ en effet ! par son aptitude à saisir l’idiosyncrasie du qualitatif… _ contre ce que Hannah Arendt appelait le monde fictif _ = par utopie _ du totalitarisme. On peut tuer en masse, soutenait-elle, parce que les dirigeants comme Staline et Hitler peuvent imaginer un monde sans koulaks, ou sans Juifs, puis conformer, même imparfaitement _ tel Procuste avec son lit _, le monde réel à leurs visions. La mort perd son poids moral, moins parce qu’elle est cachée, qu’en raison de son imprégnation _ si forte ! _ dans l’Histoire qui l’a produite. Les morts perdent eux aussi leur humanité, pour se réincarner en vain en acteurs du drame du Progrès, même ou peut-être surtout quand un ennemi idéologique résiste à cette Histoire. Grossman _ par son écriture puissante ; cf aussi, de lui, avec Ilya Ehrenbourg (et d’autres), ce travail très important qu’est Le Livre noir _ arracha les victimes à la cacophonie d’un siècle et rendit leurs voix audibles _ voilà ! _ dans une polémique sans fin« , pages 583-584.

Avec cette réflexion, alors, de Timothy Snyder qui sait creuser jusqu’aux fondements :

« D’Arendt et de Grossman réunis, procèdent alors deux idées simples.

Pour commencer, une comparaison légitime de l’Allemagne nazie et l’Union soviétique stalinienne, doit non seulement expliquer les crimes, mais aussi embrasser _ anthropologiquement (et civilisationnellement) en quelque sorte ; et cela intègre absolument crucialement les questions de la liberté et de la responsabilité, dont la question du mal : cf ici l’œuvre de Dostoïevski, dont, et Crime et châtiment, et Les Frères Karamazov (dont a pu s’inspirer Lucchino Visconti dans une scène célèbre des Damnés _ l’humanité _ éthique _ de toutes les personnes concernées par eux, y compris les bourreaux, les victimes, les spectateurs et les dirigeants.

En second lieu, une comparaison légitime doit partir de la vie plutôt que de la mort _ cf ici Spinoza : « la philosophie est une méditation non de la mort, mais de la vie«  La mort n’est pas une solution _ pragmatique et utilitariste _, mais seulement un sujet _ un problème… Elle doit être une source de trouble _ pour la conscience _, jamais de satisfaction. En aucun cas, elle ne doit procurer la fleur de rhétorique qui apporte à une histoire une fin bien définie _ je rappelle à nouveau ici ce mot de Staline à De Gaulle en 1944, et rapporté par André Malraux : « À la fin, c’est la mort qui gagne«  et égalise tout, en son néant…

Puisque c’est la vie qui donne sens à la mort, plutôt que l’inverse _ voilà ! _, la question importante n’est pas : quelle clôture politique, intellectuelle, littéraire ou psychologique tirer de la réalité de la tuerie de masse ? La clôture est une fausse _ = rhétorique… _ harmonie, un chant de sirène se faisant passer pour un chant du cygne.
La question importante est autre : comment tant de vies humaines ont-elles pu (peuvent-elles) finir dans la violence
_ du meurtre _ ?« , page 584.

« Tant en Union soviétique qu’en Allemagne, des utopies avancées, compromises par la réalité _ elle demeure bien ce à quoi le désir finit toujours par se heurter ! _, furent _ ainsi très effectivement _ mises en œuvre sous la forme d’un grand massacre : à l’automne de 1932 par Staline, à l’automne de 1941 _ les deux fois, la belle saison de l’été passée… _ par Hitler. (…) Avec les morts, on trouva rétrospectivement _ face aux échecs subis (de « collectiviser le pays » en « neuf à douze semaines« , pour Staline ; de « conquérir l’Union soviétique dans le même laps de temps« , pour Hitler) _ des arguments pour protester de la justesse de la politique suivie.

Hitler et Staline avaient en commun une certaine pratique de la tyrannie : ils provoquèrent des catastrophes, blâmèrent _ a posteriori _ l’ennemi de leur _ propre _ choix _ initial _, puis invoquèrent les millions de morts pour plaider que leur politique était nécessaire ou souhaitable. Chacun d’eux avait une utopie transformatrice, un groupe à blâmer _ = incriminer ! _ quand sa réalisation se révéla impossible, puis une politique de meurtre de masse que l’on pouvait présenter _ aux foules, par ses succès en nombre de cadavres !  _ comme un ersatz de victoire.

Dans la collectivisation comme dans la solution finale, un sacrifice massif était _ affirmé comme _ nécessaire pour protéger le dirigeant _ de l’imputation, par ce qu’était devenu le peuple (manipulé par la propagande d’État ici d’un Jdanov, là d’un Goebbels)… _ d’une erreur _ forcément ! _ impensable. La collectivisation ayant produit résistance et faim en Ukraine, Staline rejeta la faute _ de cette situation _ sur les koulaks, les Ukrainiens et les Polonais. Après l’arrêt de la Wermacht à Moscou et l’entrée des Américains dans la guerre, Hitler blâma _ = incrimina ! _ les Juifs « , pages 584-585.

Quant aux différences des deux systèmes, « dans la vision nazie, l’inégalité des groupes était _ à la fois, comme pour Calliclès dans Gorgias de Platon… _ naturelle et désirable. Il convenait même de multiplier _ en degrés _ les inégalités que l’on trouvait dans le monde, par exemple entre une Allemagne plus riche et une Union soviétique plus pauvre. Lorsqu’il fut étendu _ à  d’autres pays : satellisés… _, le système soviétique apporta _ = imposa _ aux autres sa version de l’égalité (…) ; il les obligeait à embrasser le système soviétique comme le meilleur des mondes possibles. En ce sens bien particulier, il était inclusif.

Alors que les Allemands refusèrent l’égalité à la majorité des habitants de leur empire _ menaçant de nier bientôt tout droit d’exister à une quelconque altérité… _, les Soviétiques inclurent presque tout le monde dans leur version _ imposée par la force la plus brutale _ de l’égalité » uniformisée _, pages 588-589.

De même, « dans le stalinisme, le meurtre de masse ne put jamais être autre chose qu’une défense du socialisme ou un élément _ = un simple moyen utile ; un outil de circonstance… _ de l’histoire du progrès vers le socialisme ; jamais il ne fut la victoire politique elle-même. Le stalinisme était un projet d’auto-colonisation, élargie quand les circonstances le permettaient.
La colonisation nazie, en revanche, était totalement
_ = vitalement pour elle _ tributaire de la conquête immédiate et totale d’un vaste nouvel empire oriental, qui, par sa taille, pourrait éclipser l’Allemagne d’avant-guerre. L’entreprise supposait la destruction préalable de dizaine de millions de civils.

En pratique, les Allemands tuèrent généralement des gens qui n’étaient pas allemands, alors que les Soviétiques tuèrent principalement des Soviétiques« , page 589.

« Le système soviétique ne fut jamais plus meurtrier _ endogènement, en quelque sorte, et à l’abri des frontières drastiquement verrouillées de son monde clos _ que lorsque le pays n’était pas en guerre.

Les nazis, en revanche, ne tuèrent pas plus de quelques milliers de gens avant le début de la guerre. Au cours de sa guerre de conquête _ vers et dans les steppes de l’est : sauvages ; son far-east !.. _ l’Allemagne tua des millions de gens plus vite qu’aucun autre État dans l’Histoire (à ce stade : la Chine de Mao dépassa l’Allemagne de Hitler dans la famine de 1958-1960, qui tua quelques 30 millions de personnes)«  _ précise une note de bas de page _, page 589 toujours.

Et de fait « les comparaisons entre les dirigeants et les systèmes commencèrent dès l’accession de Hitler au pouvoir.

De 1933 à 1945, des centaines de millions d’Européens durent _ et urgemment ! _ peser _ en une opération aux enjeux rien moins que vitaux pour eux-mêmes et leurs proches ! ; à moins de l’esquiver (et refouler)… _ ce qu’ils savaient _ ou étaient en mesure de se figurer… _ du nazisme et du stalinisme au moment de prendre des décisions qui ne devaient que trop déterminer leur destin _ et la litanie des exemples énoncés par Timothy Snyder, le long de la page 590, donne à elle seule le frisson !..

Ces Européens qui habitaient la partie cruciale de l’Europe _ entre ces deux terrifiantes menaces pour les vies ; pour ceux, du moins, qui en avaient, au présent, suffisamment conscience… _, étaient condamnés à comparer« , pages 589-590.


Aujourd’hui, en 2010-2012, « libre à nous, si nous le voulons, de considérer _ à froid : avec le recul tranquille et suffisamment savant de la connaissance historique a posteriori… _ les deux systèmes isolément  » ;

mais « ceux qui y vécurent connurent _ à chaud, eux _ chevauchement et interaction«  _ de ces deux systèmes de « meurtres politiques de masse«  :

« chevauchement et interaction« , voilà ce que fut bel et bien la tragique réalité historique, entre 1933 et 1945 (et considérablement aggravée à partir de la rupture militaire du pacte germano-soviétique, le 22 juin 1941 !), de la connexion complexe (et « complicité«  dans les escalades des « meurtres politiques de masse« ) terrifiante de ces deux « systèmes« , subie avec si peu de marges de manœuvre par ces malheureuses populations, prises qu’elles furent dans cette double impitoyable nasse, entre ces deux effroyables étaux _, page 591.


Et Timothy Snyder de préciser alors :

« Les régimes nazi et soviétiques furent parfois alliés, comme dans l’occupation conjointe de la Pologne

_ du 17 septembre 1939 (« L’Allemagne avait pratiquement gagné la guerre en Pologne (commencée « le 1er septembre, à 4h 20 du matin, par une pluie de bombes larguées, sans prévenir, sur la ville de Wielun, au centre de la Pologne« , page 197) quand les Soviétiques y entrèrent (à leur tour), le 17 septembre« , page 203)

au 22 juin 1941 (« le 22 juin 1941 est l’un des jours les plus significatifs de l’Histoire de l’Europe. L’invasion allemande de l’Union soviétique qui débuta ce jour-là sous le cryptonyme d’opération Barbarossa, fut bien plus qu’une attaque-surprise : un changement d’alliance, une nouvelle étape de la guerre. Ce fut le commencement d’une indescriptible calamité« , page 251)…

Ennemis _ acharnés dès l’attaque allemande du 22 juin 1941 _, ils eurent parfois des objectifs compatibles : ainsi en 1944 quand Staline choisit de ne pas  aider les rebelles à Varsovie, permettant ainsi aux Allemands de tuer ceux qui auraient plus tard résisté au pouvoir communiste. C’est ce que François Furet appelle leur « complicité belligérante ».

Souvent _ aussi _ Allemands et Soviétiques se poussèrent mutuellement à des escalades qui coûtèrent plus de vies que n’en auraient coûté les politiques de l’un ou de l’autre État tout seul. Pour chacun des dirigeants, la guerre des partisans fut l’occasion suprême (!) d’inciter l’autre à de nouvelles brutalités » _ = massacres _, page 591 toujours.

« Au cours de la Seconde Guerre mondiale, les Terres de sang _ « de la Pologne centrale à la  Russie occidentale en passant par l’Ukraine, la Biélorussie et les pays Baltes« , page 10 _ furent soumises non pas à une invasion, mais à deux ou trois _ successivement, en de terribles allers et retours de la « violence de masse«  contre des civils désarmés, en plus des opérations militaires de la guerre _, non pas à un régime d’occupation, mais à deux ou trois _ tel est le fait capital ! dont il fallait écrire enfin l’Histoire !

Le massacre des Juifs commença dès que _ le 21 juin 1941, donc _ les Allemands pénétrèrent dans les territoires que les Soviétiques avaient annexés quelques mois plus tôt _ le 17 septembre 1939, pour les territoires pris par l’Union soviétique à la Pologne (et pour « vingt-et-un mois« … (page 207) ; en juin 1940, pour les pays Baltes (« en juin 1940, l’Union soviétique étendit aussi son empire à l’ouest, annexant les trois pays Baltes indépendants : Estonie, Lettonie, Lituanie« , page 230) _, dont ils avaient déporté des dizaines de milliers d’habitants quelques semaines plus tôt _ en mai-juin 1940 : « les Soviétiques devaient déporter 17 500 personnes de Lituanie, 17 000 de Lettonie et 6 000 d’Estonie » (page 233) ; de même que « au cours des deux années passées (soit du 17 septembre 1939 au 21  juin 1941), les Soviétiques avaient réprimé près d’un demi-million de citoyens polonais : autour de 315 000 déportés, de 110 000 arrestations et de 30 000 exécutions, sans compter les 25 000 autres morts en prison«  (page 245) _, et où ils avaient exécutés des milliers de détenus quelque jours plus tôt.

Les Einsatzgruppen allemands purent _ ainsi relativement aisément _ mobiliser _ à leur profit et service _ la colère locale liée au meurtre des prisonniers par le NKVD soviétique. Les quelque 20 000 Juifs tués dans ces pogroms orchestrés _ alors _ ne représentent qu’une toute petite partie, moins de 0,5 %, des victimes de l’Holocauste. Mais c’est précisément le chevauchement du pouvoir soviétique et du pouvoir allemand qui permit aux nazis de propager _ à des fractions notables des populations de ces territoires où avaient déjà eu lieu des pogroms, par le passé (cf les admirables récits d’Isaac Babel, par exemple, réédités cette année au Bruit du Temps) ; et avec l’efficacité d’une certaine vraisemblance _ leur description du bolchevisme comme complot juif« , page 591.

« D’autres épisodes du massacre furent le résultat de cette même accumulation _ et surimposition, et à plusieurs reprises _ du pouvoir nazi et du pouvoir soviétique.

En Biélorussie occupée, des Biélorusses tuèrent d’autres Biélorusses, certains en tant que policiers au service des Allemands, d’autres comme partisans soviétiques.

En Ukraine occupée, des policiers refusèrent de servir les Allemands et rejoignirent les unités de partisans nationalistes. Ces hommes tuèrent alors des dizaines de milliers de Polonais et de compatriotes ukrainiens au nom d’une révolution sociale et nationale « , page 592.

Ainsi, « c’est dans les terres que Hitler concéda d’abord à Staline dans le protocole secret du pacte de non-agression de 1939, puis reprit aux premiers jours de l’invasion de 1941, et reperdit en 1944 _ quels terrifiants allers-retours de ces deux régimes pour les malheureuses populations de ces territoires ouverts de l’est européen ! _, que l’impact de l’occupation continue et multiple _ voilà ! _ fut le plus dramatique _ et avec quelles terrifiantes saignées !

Sous la coupe des Soviétiques, entre 1939 et 1941, des centaines de milliers d’habitants de cette zone furent déportés vers le Kazakhstan et la Sibérie, et des dizaines de milliers d’autres exécutés.

La région était _ tout particulièrement _ le cœur de la population juive en Europe _ par la volonté (souvent très ancienne) de certains souverains : polonais (Boleslaw III, Casimir III le Grand, et les rois Jagellon (Ladislas II, Alexandre Ier, Sigismond Ier le Vieux, Sigismond II Auguste), russes (l’impératrice Catherine II la Grande), autrichiens (l’empereur Joseph II)… _, et les Juifs se retrouvèrent _ absolument _ piégés en 1941, quand les Allemands envahirent l’Union soviétique élargie depuis peu. La quasi-totalité des Juifs originaires de cette région furent tués.

C’est ici que les partisans ukrainiens procédèrent au nettoyage ethnique des Polonais, avant que les forces soviétiques ne fassent de même avec les Ukrainiens et les Polonais à partir de 1944« , pages 592-593.

Et Timothy Snyder d’ajouter encore :

« C’est dans cette zone, à l’est de la ligne Molotov-Ribbentrop _ tracée, à Moscou le 23 août 1939 : « les deux régimes trouvèrent aussitôt un terrain d’entente dans leur aspiration mutuelle à détruire la Pologne » ; « aux yeux de Hitler, la Pologne était la « création irréelle » du traité de Versailles » ; « pour Molotov, son « affreux rejeton » » ; « Ribbentrop et Molotov se mirent aussi d’accord sur un protocole secret, dessinant des zones d’influence pour l’Allemagne nazie et l’Union soviétique en Europe orientale dans des États encore indépendants : Finlande, Estonie, Lettonie, Lituanie, Pologne et Roumanie » (page 192 ; cf aussi la carte, page 204) _ que commença l’Holocauste

et que les Soviétiques repoussèrent par deux fois _ en 1939, donc, puis au lendemain de la guerre et lors de leur victoire, en 1945, en fonction des territoires par les armes conquis… _ leurs frontières à l’ouest.

C’est aussi dans cette bande de territoire bien particulière des Terres de sang _ « à l’est de la ligne Molotov-Ribbentrop« , donc ; et jouxtant la partie occidentale de l’Union soviétique en ses frontières d’entre 1921 et 1939 _ que le NKVD mena à bien l’essentiel de ses persécutions des années 1940 _ jusqu’au recul soviétique de l’été 1941, lors de l’invasion allemande, déclenchée par surprise le 22 juin 1941 ; cf la carte de « la progression allemande du 22 juin au 1er octobre 1941« , page 270 _,

que les Allemands tuèrent plus du quart de leurs victimes juives _ cf la carte des « principaux sites d’affamement allemands« , page 275, et la carte de « la progression allemande du 1er octobre au 5 décembre 1941« , page 331.

et qu’eurent lieu des nettoyages ethniques en masse _ quand l’URSS reprit peu à peu ces territoires à la Wermacht à partir du printemps 1944 ; cf les cartes de ces avancées progressives : page 383, pour « le front de l’Est en juillet 1943« , et page 432, pour les avancées des « forces soviétiques en 1943-1944« 


L’Europe de Molotov-Ribbentrop fut une coproduction des Soviétiques et des nazis« , page 593.

Il faut noter aussi que « dans les cas aussi bien nazi que soviétique, les périodes de meurtre de masse _ c’était donc par « périodes«  : par commandes successives venues (comme par prurits de Staline comme de Hitler…), d’en haut, que ces « meurtres de masse«  se produisaient… _ furent aussi des périodes de performance administrative _ aux échelons de mise en œuvre sur le terrain… _ enthousiaste, ou tout au moins uniforme » :

« au cours de la Grande Terreur _ stalinienne _ de 1937-1938 et de la première vague de meurtre des Juifs _ nazie _, des signaux venus d’en haut aboutirent à des demandes _ d’en bas : de la part des réalisateurs sur le terrain _ d’un relèvement des quotas _ jusqu’où mène le zèle du carriérisme ! À cette époque, le NKVD fut soumis à des purges. En 1941, en Union soviétique occidentale, les officiers SS, comme les officiers du NKVD quelques années plus tôt, rivalisèrent d’ardeur : à qui tuerait le plus et montrerait ainsi sa compétence et sa loyauté.

La vie humaine était réduite à l’instant de plaisir _ je pense aussi, par exemple, aux circonstances désormais élucidées et bien connues de l’assassinat de Bruno Schultz, à Drohobytch, en Galicie, le 19 novembre 1942… _ du subalterne

qui fait son rapport _ dont l’essentiel est fait de listes de chiffres ! _ à un supérieur« , pages 596-597.

Vient aussi l’inconvénient fâcheux pour l’historiographie, de la concurrence _ idéologique (et médiatiquement endémique aujourd’hui) _ des mémoires _ quand, de personnelles (c’est-à-dire intimes et privées), elles deviennent publiques et officielles, avec le pignon sur rue et affichage des propagandes… _ et commémorations _ cf là-dessus, Paul Ricœur : La mémoire, l’histoire, l’oubli

Ainsi, page 604, Timothy Snyder aborde-t-il le fait d’opinion patent que « la culture contemporaine de la commémoration tient pour acquis que la mémoire empêche le meurtre « . Pour lui opposer, page 605, ce constat bien plus gênant que « quand on tire un sens de la tuerie, le risque est que la tuerie _ elle-même : et celle passée, et celle à venir ; et c’est là une des bases de la logique des terrorismes… _ produise bien plus _ encore _ de sens« …

Ce qu’il commente ainsi : « Peut-être est-ce _ même _ ici une fin _ finalité, parmi d’autres, plus légitimes, elles… _ de l’Histoire _ historienne _, quelque part entre le bilan des morts et sa réinterprétation constante« …

Aussi, toujours page 605, en déduit-il cette conclusion très importante, et tout simplement basique, que « seule une Histoire _ historienne sérieuse et suffisamment large, sinon exhaustive : celle qu’il veut mener ici en ce livre essentiel… _ du massacre peut unir _ de man!ère plus (ou enfin) heureusement apaisée _ les chiffres et les mémoires« . Car « sans l’Histoire, les mémoires se privatisent _ ce qui veut dire aujourd’hui qu’elles deviennent nationales _ ; et les chiffres deviennent publics, autrement dit un instrument _ disponible _ dans la concurrence internationale pour le martyre. Ma mémoire m’appartient, et j’ai le droit d’en faire ce que bon me semble ; les chiffres sont objectifs, et vous devez accepter mes comptes, qu’ils vous plaisent ou non. Cette forme de raisonnement permet à un nationaliste de s’étreindre un bras _ de douleur _ et de frapper _ simultanément _ son voisin de l’autre« .

Et de fait, « après la fin de la Seconde Guerre mondiale, puis de nouveau après la fin du communisme, les nationalistes à travers les Terres de sang (et au-delà) se sont complus dans l’exagération quantitative _ voilà ! _ de leur statut de victimes, revendiquant pour eux-mêmes le statut de l’innocence » : et ce qui suit, aux pages 605 à 611, détaille la liste de ces exagérations victimales : russes (pages 605 à 608), ukrainiennes (page 608), biélorusses (pages 608-609), allemandes (pages 609-610), polonaises (pages 610-611).

Alors, déduit de ce bilan-là Timothy Snyder page 612, « quand l’Histoire _ l’Histoire véritable des res gestae advenues, celle-là même que l’Histoire véridique des historiens sérieux, se donne pour objectif de construire et réaliser par leur travail _ est effacée, les chiffres enflent _ idéologiquement _ et  les mémoires se replient sur elles-mêmes à nos risques et périls à tous » _ c’est la raison pour laquelle dans le titre même de cet article j’ai adjoint au qualificatif d’« indispensable«  celui de « urgent«   Aussi, même si les nombres ne sont pas le principal ici, faut-il cependant, aussi, commencer par les établir : avec sérieux et justesse...

Mais, au-delà de ce comptage par nationalités :

« les morts appartiennent-ils vraiment à quiconque ?« 

Et Timothy Snyder de rappeler, dans la suite de la page 612, la difficulté et même l’impossibilité de rattacher toutes les personnes assassinées à un groupe identifiable unique.

Et ici nous atteignons le cœur du cœur _ sur ce qu’est le plus foncièrement l’humanité ! dont le « droit«  se révèle, dans l’Histoire même de cette humanité, un des caractères fonciers (et inaliénables !) de son « fait«  d’être, lui-même… _ de ce magnifique et fondamental travail qu’est Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline , avec la question _ imparable et irrésistible humainement _ de la singularité des personnes :

« Sur plus de 4 millions de citoyens polonais _ dans les frontières de la Pologne de 1921 à 1939, d’avant la double annexion germano-soviétique des 1er septembre (pour les Allemands, page 197) et 17 septembre 1939 (pour les soviétiques, page 203) _ assassinés par les Allemands, près de trois millions étaient juifs. Ces 3 millions de Juifs sont tous comptés comme polonais, ce qu’ils étaient. Beaucoup s’identifiaient _ et c’est bien de ce phénomène-processus (mouvant : il se construit ; et ne se détruit pas aisément) d’identification à des groupes de population, qu’il s’agit profondément, aussi, ici… : tant dans l’Histoire (historique) advenue que dans l’Histoire (historienne) à établir-construire, par les historiens _ profondément à la Pologne ; certains qui moururent en Juifs _ pour ceux qui les assassinèrent après les avoir fichés et listés (et certains étoilés !) comme tels _ ne se considéraient pas _ eux-mêmes, personnellement, donc _ comme tels. Plus d’un million de ces Juifs sont aussi comptés comme citoyens soviétiques, parce qu’ils vivaient dans la moitié de la Pologne _ d’avant le partage germano-soviétique « signé à Moscou le 23 août 1939«  par Molotov et Ribbentrop (page 192) : une date cruciale pour ces Terres de sang ! _ annexée par la Pologne au début de la guerre _ soit le 17 septembre 1939 très précisément (page 203). Parmi ces millions de Juifs, la plupart vivaient sur des terres qui font désormais partie de l’Ukraine indépendante«  _ d’aujourd’hui, parce qu’annexées par l’URSS victorieuse des Allemands en 1945.

Il faudrait tout citer de ces lignes admirables et tellement fondamentales

pour ce qu’est _ et inaliénablement : quelles que soient les péripéties tragiques de l’Histoire _ l’humanité !, de ces quelques exemples de difficulté d’assignation à telle ou telle « communauté« , en exclusion d’autres :

« La petite Juive qui griffonna un mot à sa mère _ »Ma maman chérie ! Impossible d’y échapper. Ils nous ont fait sortir du ghetto, pour nous conduire ici, et nous devons mourir maintenant d’une mort terrible. Nous sommes navrés que tu ne sois pas avec nous. Je ne peux me le pardonner. Nous te remercions, maman, de tout ton dévouement. Nous te couvrons de baisers.« , page 352 (Archives ZIH de l’Institut historique juif, à Varsovie : « les inscriptions sur les murs de la synagogue furent notées par Hanoch Hammer » est-il précisé aussi en note de bas-de-page) _ sur le mur de la synagogue de Kovel _ ville située à 73 kilomètres au nord-ouest de Loutsk, en Volhynie : « les Juifs représentaient à peu près la moitié de la population locale : quelque 14 000 âmes«  ; cf le récit de ce qui y advint de mai à août 1942, donné aux pages 351-352 : « le 2 juin, la police allemande et des auxiliaires locaux entourèrent le ghetto de la vieille ville. Ses les « 6 000 habitants furent conduits dans une clairière près de Kamin-Kachyrsky et exécutés. Le 19 août, la police renouvela cette action avec l’autre ghetto, exécutant 8 000 autres Juifs. Commença alors la traque des Juifs cachés, qui furent raflés et enfermés dans la grande synagogue de la ville sans rien à boire ni manger. Puis ils furent exécutés, non sans qu’une poignée d’entre eux aient eu le temps de laisser leurs derniers messages, en yiddish ou en polonais, gravés avec des pierres, des couteaux, des plumes ou leurs ongles sur les murs du temple où quelques-uns d’entre eux avaient observé le Sabbat    «  _, appartient-elle à l’Histoire polonaise, soviétique, israélienne ou ukrainienne ? Elle écrivit en polonais ; ce jour-là, d’autres Juifs enfermés dans cette synagogue écrivirent en yiddish.

Et qu’en était-il de la mère juive de Dina Pronitcheva _ cf le récit des pages 322 à 324 _, qui pressa sa fille en russe de fuir Babi Yar, qui se trouve à Kiev, capitale aujourd’hui de l’Ukraine indépendante ?

La plupart des Juifs de Kovel et de Kiev, comme d’une bonne partie de l’Europe orientale, n’étaient ni sionistes ni polonais, ni ukrainiens ni communistes. Peut-on dire qu’ils sont morts pour Israël , la Pologne, l’Ukraine ou l’Union soviétique ? Ils étaient Juifs, citoyens polonais ou soviétiques, et leurs voisins étaient ukrainiens, polonais ou russes. Dans une certaine mesure, ils appartiennent aux Histoires _ mêlées, enchevêtrées et indissolublement liées _ de ces quatre pays, pour autant _ encore… _ que les Histoires de ces quatre pays soient vraiment distinctes.

Les victimes _ singulières, chacune, en sa propre (et unique) vie _ ont laissé derrière elles des gens _ c’est-à-dire des personnes, elles aussi singulières _ en deuil. Les tueurs, des chiffres _ sous forme de nombres de victimes listées

(sur le phénomène de la « liste« , cf le livre magnifique et passionnant de mon ami Bernard Sève De Haut en bas _ philosophie des listes ; cf mon article du 4 avril 2010 : Un moderne « Livre des merveilles » pour explorer le pays de la « modernité » : le philosophe Bernard Sève en anthroplogue de la pratique des « listes », entre pathologie (obsessionnelle) et administration (rationnelle et efficace) de l’utile, et dynamique géniale de l’esprit)…

Nous voici ici au centre vibrant de ce qu’apporte _ humainement ! et anthropologiquement… _ cet immense livre-monument qu’est ce, décidément, plus qu’admirable Terres de sang _ l’Europe entre Hitler et Staline

« Rejoindre un grand nombre après la mort, c’est _ pour la personne (singulière) de l’individu humain _ être promis à se dissoudre dans le flot de l’anonymat. Être enrôlé à titre posthume dans des mémoires nationales rivales, soutenu par des chiffres _ des nombres sur des listes _ dont sa vie est devenu une partie _ une unité, un item parmi d’autres _, c’est sacrifier son individualité _ celle de la singularité (inaliénable !) d’une (et de toute) personne humaine. C’est être abandonné par l’Histoire _ historienne nécessairement sérieuse et humaniste par là ! _, qui part du postulat que chaque personne est irréductible.

L’Histoire, dans toute sa complexité _ historique : à démêler patiemment et rigoureusement par le travail probe de l’historien qui veut comprendre le sens, complexe en effet, de ce qui s’est passé dans le devenir collectif, enchevêtré et conflictuel (souvent violent à grande échelle), de l’humanité _, est tout ce que nous possédons et pouvons partager _ en tant que connaissance (historiographique) vraie ; et à titre de membres, tous et chacun, un par un, de cette humanité (anthropologique) qui nous est commune. Aussi, même quand nous détenons les bons chiffres _ des nombres justes : ici, ceux des victimes des « meurtres politiques de masse«  de Staline et Hitler, entre 1932-33 et 1945  _, la vigilance s’impose _ à l’historien. Les bons chiffres ne suffisent pas« , page 613.

Et Timothy Snyder poursuit superbement, toujours page 613 :

« Les cultures de la mémoire sont organisées _ pour simplifier (et résumer) les choses, à l’aune des grands nombres, surtout… _ en chiffres ronds, par intervalles de 10 ; or, d’une certaine façon, il est plus facile _ à la vraie mémoire : pas celle (quantitative et mécanique) du par cœur, mais la mémoire affective qualitative (cf ici les analyse de Bergson, par exemple dans Matière et mémoire…) _ de se souvenir des morts _ comme personnes, pas comme items _ quand les chiffres _ des nombres (ici de victimes massacrées en masse)… _ ne sont pas ronds ; quand le dernier chiffre _ du nombre (de cadavres) _ n’est pas un 0.« 

Et Timothy Snyder de donner alors, au final de son livre, quatre noms de personnes pour deux comptes (de victimes) qui ne sont effectivement _ historiennement et historiquement, de fait _ pas ronds, l’un à Treblinka et l’autre à Babi Yar, pris pour exemples :

« Peut-être est-il plus facile de penser à 780 863 personnes différentes tuées à Treblinka, avec les trois de la fin qui pourraient être Tamara et Itta Willenberg, dont les vêtements restèrent noués ensemble après qu’elles furent gazées, et Ruth Dorfmann, qui put pleurer avec l’homme qui lui coupait les cheveux avant d’entrer dans la chambre à gaz _ cf les précisions données page 419.

Ou sans doute serait-il plus facile d’imaginer le dernier des 33 761 Juifs exécutés à Babi Yar : la mère de Dina Pronitcheva, par exemple _ cf pages 322-323 _, même si en réalité chaque Juif tué là-bas pourrait être celui-là, doit être celui-là, est celui-là« , page 613.

Et aussi, page 614 :

« Dans l’Histoire des tueries en masse dans les Terres de sang,

la remémoration _ en plus de la connaissance historique des historiens, donc (moins exigeante le plus souvent en matière de connaissance exacte de la singularité ; et pourtant !) _ doit inclure

le million (de fois un) de Léningradois morts de faim au cours du siège,

les 3,1 millions (de fois un) de prisonniers de guerre soviétiques bien distincts tués par les Allemands en 1941-1944,

ou les 3,3 millions (de fois un) de paysans ukrainiens bien distincts affamés par le régime soviétique en 1932-1933.

Ces chiffres ne seront jamais connus avec précision _ à la dernière unité juste près... _, mais ils nous parlent d’individus aussi :

des familles de paysans faisant des choix effroyables _ tel que « lequel sera mangé ? » _,

des prisonniers qui se tiennent mutuellement chaud dans des gourbis,

des enfants comme Tania Savitcheva observant

_ ce dont témoigne son journal (« tout simple« , est-il dit page 573 ; « l’une de ses sœurs s’enfuit en traversant la surface gelée du lac Ladoga ; Tania et le reste de sa famille trouvèrent la mort« , est-il aussi alors  précisé…), cité page 280 en sa terrible intégralité :

« Jenia est morte le 28 décembre 1941 à minuit trente. Grand-mère est morte le 25 janvier 1942 à 15 heures. Leka est morte le 5 mars 1942 à 5 heures du matin. Oncle Vassia est mort le 13 avril 1942 à 2 heures du matin. Oncle Lecha est mort le 10 mai 1942 à 16 heures. Maman est morte le 13 mai 1942 à 7 h 30 du matin.

Les Savitchev sont morts.
Tout le monde est mort.
Il ne reste que Tania
« 
;

et « Tania est morte en 1944« , ajoute alors Timothy Snyder (page 280, aussi) ; « le journal est exposé au Musée national d’histoire de Saint-Pétersbourg dans le cadre de l’exposition Leningrad dans les années de le Grande Guerre patriotique« , précise alors une note de bas-de-page _

des enfants comme Tania Savitcheva observant leurs familles mourir à Leningrad « …

« Chacune des 681 692 personnes tuées dans la Grande Terreur de Staline, dans les années 1937-1938, avait une vie à elle :

les deux de la fin pourraient être Maria Juriewicz et Stanislaw Wyganowski, la femme et le mari réunis « sous la terre » _ cf le récit qui concerne ceux-ci, aux pages 163-164 _, page 614, toujours.

Et « chacun des 21 892 prisonniers de guerre polonais, page 614 encore.

Et comme je l’ai mentionné plus haut en cet article,

Timothy Snyder peut alors conclure ainsi son magistral travail :

« Les régimes nazi et soviétique transformèrent des hommes en chiffres : certains que nous ne pouvons qu’estimer, d’autres que nous pouvons recalculer avec assez de précision.

Il nous appartient à tous, chercheurs, d’essayer de les établir et de les mettre en perspective.

Et à nous, humanistes, de retransformer ces chiffres en êtres humains.

Si nous ne le faisons pas, Hitler et Staline auront façonné non seulement notre monde, mais aussi notre humanité « .


D’où l’indispensabilité et l’urgence _ en 2101-2012 _, humaines et anthropologiques (et civilisationnelles), de cet immense livre, pour nous, hommes _ encore un peu « humains« _, d’aujourd’hui…

Titus Curiosus, ce 26 juillet 2012

L’honneur et le « sacré » de la démarche d’enquête du Père Desbois en Ukraine _ la légitimité du concept de « Shoah par balles » : l’apport de Serge Klarsfeld

09juil

Il y a quelque temps _ trois semaines : c’était le 18 juin dernier _, j’ai été,

pour connaître personnellement (et estimer immensément) le Père Patrick Desbois

_ c’était très précisément la journée du jeudi 31 janvier 2008, passée toute à ses côtés : j’étais allé l’accueillir à l’aéroport de Bordeaux-Mérignac pour l’acheminer en voiture en ville : un des temps-forts, je puis dire, de toute mon existence même, que cette conversation de vingt minutes dans l’habitacle de ma voiture ; et le soir, au dîner clôturant le colloque « Enfants de la guerre _ réparer l’irréparable » (qu’avait pour l’essentiel construit mon ami Nathan Holchaker), dialoguant amicalement avec lui et Georges Bensoussan _,

assez « peiné » de l’émergence d’une plutôt vilaine polémique _ « Querelle autour du Père Desbois« , l’article étant signé Thomas Wieder _ soulevée dans ces mêmes pages du journal « Le Monde«  (daté du 19 juin) par une historienne, Alexandra Laignel-Lavastine, ayant participé à ces enquêtes de terrain (et recueils de témoignages des derniers survivants de ces opérations de massacres de la dite « Shoah par balles« , entre 1941 et 1944) de l’équipe du Père Desbois en Ukraine ;

pour ressentir une certaine joie de voir, aujourd’hui, Serge Klarsfeld soutenir l’honorabilité et la légitimité du travail d’enquête-« recueillement de _ si précieux ! _ témoignages » sur le terrain, du Père Patrick Desbois :

en son « Point de vue » intitulé « En défense du Père Desbois« 

LE MONDE | 08.07.09 | 13h54

Que voici,

farci, selon mon habitude sur ce blog, de quelques commentaires de ma part :

« Les critiques dont le Révérend Père Desbois a fait l’objet ne méritent de sa part _ l’expression est à bien relever _ que de poursuivre sereinement l’œuvre qu’il a initiée, qu’il a conduite jusqu’à aujourd’hui et qui exige que lui et son équipe la mènent à son terme dans les meilleures conditions _ tant de faisabilité et d’efficacité que de légitimité pour le service de la vérité de la connaissance des faits advenus !

Si je me permets d’intervenir pour le soutenir _ on relèvera aussi le choix exprès de ce terme, sous la plume et par la voix de Serge Klarsfeld _, c’est parce qu’il y a plus de trente ans, j’ai entrevu en ce qui concerne la Shoah l’importance _ tant quantitative que qualitative, si j’ose le préciser ainsi… _ des massacres de juifs qui se sont déroulés en Union soviétique. A l’époque, dans un polycopié, j’ai réuni chronologiquement tous les rapports des Einsatzgruppen (unités mobiles d’extermination) qui m’étaient accessibles. En 1978, dans un ouvrage que Beate (son épouse) et moi avons publié aux Etats-Unis et intitulé « The Holocaust and the Neo-Nazi Mythomania« , nous avons inclus deux études approfondies du professeur George Wellers, directeur du Centre de documentation juive contemporaine (CDJC), l’une sur l’existence des chambres à gaz, l’autre sur le nombre des morts.

C’était un des premiers ouvrages à répondre aux allégations des négationnistes à une époque où la précision historique n’était pas le fort des porte-parole des organisations juives et où l’histoire de la Shoah se trouvait, sauf exceptions (le CDJC, Yad Vashem, Raul Hilberg, Leon Poliakov…), plus entre les mains d’amateurs passionnés que d’universitaires habilités à consacrer à ce sujet des thèses nécessitant des années de recherche _ pas encore mobilisés ! ces universitaires : peut-être, en partie, faute d’assez de « motivation » de leur part, alors : et de quels ordres, ces « motivations«  à accomplir ces « recherches de thèses«  ?.. _ afin que chaque page _ toutes comptent !!! _ du livre tragique de la Shoah _ écrit ces années de nazisme : cf la grande synthèse magnifique de Saul Friedländer : « L’Allemagne nazie et les Juifs » : tome 1 : « Les Années de persécution : 1933-1939 » ; tome 2 : « Les Années d’extermination : 1939-1945 » _ ne reste ni ignorée ni négligée.

Dans son étude, le professeur Georges Wellers avait travaillé sur les recensements en URSS en 1926, 1939 et 1959 et était parvenu à établir qu’environ 1,8 million de juifs soviétiques avaient été victimes de la Shoah. Ces statistiques ont été confirmées par les rapports des Einsatzgruppen, par le rapport du statisticien Richard Korherr choisi par Himmler (et que nous avons retrouvé en 1977), mais aussi par les rapports des commissions d’enquête soviétiques sur les crimes commis par les nazis sur le territoire de l’URSS (rapports que j’ai pu voir à Moscou dès 1984 sans avoir la possibilité de les exploiter).

Les historiens étaient au courant, mais cette tuerie systématique restait ignorée du grand public, alors qu’il est capital que le grand public _ lui aussi _ partage l’opinion _ informée _ de la communauté historienne _ savante.

L’expression « Shoah par le gaz » est juste puisque tant de juifs sont morts gazés. L’expression « Shoah par malnutrition et misère physiologique » est juste puisque tant de juifs sont morts de faim et de maladies provoquées et non soignées. L’expression « Shoah par balles » est juste _ elle aussi ! _ puisque tant de juifs ont été tués par des tirs. L’expression « Shoah par pogroms » serait juste aussi puisque tant de juifs ont été tués à coups de bâtons ou de matraques. La Shoah est une opération unique _ oui _ mais les modalités de mise à mort ont été multiples _ aussi _ et chacune d’elles nécessite des recherches _ historiennes _ particulières _ eu égard à la spécificité de ce qui peut en demeurer comme « traces« , « restes« , « vestiges« , « monuments« , « documents« , « archives« , « témoignages« , etc… permettant d’établir et avérer ces « faits » historiques… Ce qui revient à ne pas « délégitimer«  du tout l’expression « Shoah par balles« , de la part de Serge Klarsfeld…

L’équipe du Père Desbois a enquêté _ jusqu’ici _ dans plus de 260 localités d’Ukraine, dans une trentaine en Biélorussie. Elle a recueilli des centaines de témoignages _ de « témoins » encore vivants, bien sûr, l’âge avançant : c’est une lutte contre la montre ; il y a urgence !.. _ qui corroborent les investigations des commissions d’enquête soviétiques et qui expliquent très précisément _ voilà ! _ le déroulement de ces massacres, comment et par qui les fosses communes ont été _ alors _ creusées, tout en extrayant _ aussi, en creusant de facto le sol _ les preuves matérielles _ l’emplacement exact des fosses, ce qui demeure des cadavres, les douilles utilisées _ de ces crimes ; et qui en étaient les auteurs ; et en bétonnant sous surveillance religieuse _ de rabbins _ les lieux d’extermination afin qu’ils ne puissent plus être saccagés. Sans la personnalité _ probablement unique _ du Père Desbois et son état d’ecclésiastique _ avec ce qu’apporte un tel statut auprès des « témoins«  (de religion orthodoxe, pour la plupart) encore vivants _, aucune équipe n’aurait pu s’engager efficacement _ voilà le premier enjeu !!! il faut bien le mesurer et le prendre en compte ! _ dans une pareille entreprise _ d’enquête effective sur le terrain _ et obtenir l’indispensable coopération _ toujours assez délicate !!! et pour laquelle le Père Desbois a peu à peu affiné tout un protocole : cf le détail de cet « affinage«  progressif en son livre : Porteur de mémoires » ; l’édition en collection de poche (« Champs-Flammarion« , le 18 mars 2009) ne comporte hélas pas les photos, si parlantes, elles aussi, de Guillaume Ribot… ; pour elles, si précieuses, pourtant, se reporter à l’édition précédente, le 25 octobre 2007, de « Porteur de mémoires« , aux Éditions Michel Lafon _ aussi bien de la population que des autorités.

Il en est allé de même pour les noms des victimes de la Shoah _ identifiés enfin, si possible, un à un _ que pour les fosses communes _ repérées, ré-ouvertes et explorées, une dernière fois _ de ses victimes. Pour retrouver les noms, il fallait _ avec quelles difficultés ! _ réussir à pénétrer dans les archives d’États qui avaient participé à la « solution finale » et qui étaient réticents _ c’est une des données de fait, aussi, et d’importance, auxquelles se heurte la recherche historique _ à faire la lumière sur leur passé ; il fallait creuser _ un travail de fourmi _ comme des archéologues dans des archives nationales, ministérielles, départementales, municipales pour y découvrir _ une à une, un à un, infiniment patiemment ou obstinément : qui donc a cette force ?.. _ des listes, des dossiers, des fiches, des papiers d’identité, des photographies. Aujourd’hui, de tous les pays, les noms, les états civils, les destins _ singuliers des personnes assassinées _ dans les ordinateurs de Yad Vashem s’additionnent _ in fine _ par millions ; tandis que chaque victime dont l’existence est établie et documentée redevient un sujet _ singulier et, brisant le silence massif méthodiquement voulu et organisé par les assassins,  se mettant à « parler«  enfin, au-delà de sa « liquidation« , des circonstances mêmes de sa propre disparition, puis « liquéfaction« , au fil du temps qui passait ; et des puissances d’oubli œuvrant sans bruit… _ ;

redevient _ donc _ un sujet de l’histoire _ voilà l’apport immensément précieux (et probablement irremplaçable _ par quiconque d’autre…) du travail de l’équipe du Père Patrick Desbois.

Les travaux de l’équipe du Père Desbois suivent une méthode originale et rigoureuse : enquête archivistique _ de ciblage, une à une, des « actions«  des Einsatzgruppen _ dans les documents soviétiques et allemands ; et dans les études historiques antérieures ; enregistrement de l’histoire orale sur le terrain grâce à une enquête de proximité ; recherche balistique et archéologique. Toutes ces données sont _ systématiquement _ traitées et rassemblées afin que les chercheurs _ universitaires, à leur tour _ puissent y accéder dans le cadre de recherches universitaires ; et, si besoin est, les soumettre à leur esprit critique _ bienvenu… Il faut souligner qu’il ne s’agit pas pour le Père Desbois de mener une enquête pour rechercher qui parmi les témoins ou leurs parents aurait participé _ peu ou prou… _ aux crimes, ou en aurait pu en tirer profit. Pareille démarche menée par lui ou par tout autre aurait aussitôt mis fin _ en effet ! _ à l’initiative _ qui ne cherche pas à régler aucun compte in extremis parmi les survivants (plus ou moins complices, éventuellement) des actes accomplis lors de ces événements d’entre 1941 et 1945 ; seulement connaître la vérité des circonstances des meurtres effectifs de ces personnes-victimes de l’entreprise d’extermination.

Les détracteurs du Père Desbois acceptent difficilement _ pour des raisons de « concurrence » de financement de « recherches » ?.. Là-dessus, lire toujours le témoignage décapant, sur les camarillas universitaires, de Paul Feyerabend (1924-1994), en sa passionnante, très instructive et assez édifiante, autobiographie : « Tuer le temps« , parue aux Éditions du Seuil en octobre 1996 _ qu’en quelques années seulement il ait acquis une véritable renommée internationale _ faisant, bien malgré elle, de l’ombre à quelques égos… Il la mérite _ pourtant, cette « renommée internationale«  _ pour avoir surmonté _ en effet _ dans cette aventure historienne _ oui, aussi, et peut-être même d’abord : c’est à « évaluer« … ; même si lui-même, Patrick Desbois, n’est pas, en effet, « historien de formation«  : universitaire… _ de très grandes difficultés matérielles, intellectuelles, diplomatiques, financières et même physiques _ oui ! _ ; et pour avoir rendu visible et compréhensible pour le plus grand nombre _ aussi _ un gigantesque crime qui n’était que comptabilisé et sommairement décrit _ et pas existentiellement mesuré ! _ dans des ouvrages à diffusion restreinte _ dans les cercles d’universités et universitaires. La foi qui le guide a peut-être plus d’exigence historique que le professionnalisme _ seulement technique _ de beaucoup d’historiens _ formule à méditer sur le statut même (= philosophique et existentiel, pour tout un chacun en tant que personne « non-in-humaine« ) de la vérité et de ses enjeux fondamentaux…


Serge Klarsfeld est président de l’Association des fils et filles des juifs déportés de France. Article paru dans l’édition du 09.07.09.

Je complèterai ce « dossier » par un échange de courrier avec une amie professeur d’histoire : Historiana…

Ainsi, voici l’intitulé du message par lequel cette amie me communiquait tout simplement, et sans autre commentaire de sa part, l’article « Querelle autour du Père Desbois » de Thomas Wieder (du Monde du 18 juin dernier) ;

cet « intitulé » faisait allusion à la difficulté (abordée antérieurement entre nous, à l’automne 2007) de « porter foi » aux « témoignages » en une enquête historienne rigoureuse ;

remarques qu’elle avait formulées cet automne 2007, quand je lui avais fait part de la « force » de ma découverte du livre du Père Desbois, « Porteur de mémoires » :

 De :   Historiana

Objet : Peut-être n’est-ce qu’une querelle de personnes, mais cela conforte mes fortes réticences de départ… et mes doutes à la suite de la lecture du livre.
Date : 18 juin 2009 15:41:35 HAEC
À :   Titus Curiosus

Ma réaction, immédiate, à cet aveu de « réticences » :

 De :   Titus Curiosus

Objet : Rép : Peut-être n’est-ce qu’une querelle de personnes, mais cela conforte mes fortes réticences de départ… et mes doutes à la suite de la lecture du livre.
Date : 18 juin 2009 17:35:31 HAEC
À :  Historiana

 Ces « mauvaises » querelles (portant sur la bonne ou mauvaise foi du Père Desbois) me paraissent assez misérables…

Bien sûr, on peut toujours discuter de la légitimité _ historiographique, préciserais-je _ des méthodes ;

mais ne mélangeons pas tout…

Quelles sont au juste, pour commencer, les positions de Georges Bensoussan
ou de Guillaume Ribot
et de Claude Lanzmann
(avec lesquels je peux communiquer ; de même qu’avec Patrick Desbois)
invoqués ici, apparemment, comme « témoins à charge » ?.. A examiner d’un peu (= beaucoup !!!) plus près…

Tout cela (cette « mauvaise querelle« ) me paraît assez « idéologique« , voire « boutiquière« ,
et ne pas trop sentir elle-même la « bonne foi« …

A creuser…

Le Père Desbois ne s’est jamais prétendu « historien« , que je sache ;
et je ne suis pas du tout sûr que l’expression « Shoah par balles » soit la sienne _ elle me paraît plutôt être celle de l’éditeur, Michel Lafon, sur le bandeau du livre « Porteur de mémoires« …


Le travail du Père Desbois porte sur le recueil des témoignages et l’identification des fosses…
Je trouve certains « historiens » un peu chatouilleux a priori


Maintenant,
rien n’est a priori tabou en fait de « questionnement méthodologique » historiographique…
Si scandale il y a, les choses ne manqueront pas de s’éclairer…


Titus

Voici, il me paraît assez significatif pour le verser aujourd’hui à ce « dossier« , le détail de notre échange de courriels en novembre 2007 :


De :   Historiana

Objet : Rép : Dossier de presse sur le Père Desbois et « la shoah par balles » sur le territoire de l’actuelle Ukraine
Date : 17 novembre 2007 09:37:50 HNEC
À :   Titus Curiosus

Oui, sans doute intéressant ce travail.
Cela fait plus d’un an que des articles en parlent et reparlent.
Comme d’une sorte de révélation, comme si tout d’un coup on découvrait qu’il n’y avait pas eu que les camps… étonnant. Ce que l’on appelait « les autres moyens d’extermination » et que l’on appelle maintenant « Shoah par balles« , n’est quand même pas une découverte ! De l’Allemagne à la Russie, c’était le moyen le plus rapide, le plus expéditif. C’était pratiqué aussi dans les camps d’extermination, puisque la capacité des chambres à gaz était beaucoup trop faible. Et les actions des Einsaztgruppen sont connues. D’ailleurs _ ce qui n’apparaît guère dans les articles, mais sans doute dans le travail du père Desbois, je pense (et la réponse est : oui !) _ les Juifs n’étaient pas les seuls. Les communistes, les Tziganes (et d’autres minorités)… et comme il fallait faire du chiffre (concours entre ces groupes et récompenses), on éliminait souvent toute la population sans discrimination. Ce n’est pas uniquement la « Shoah« , c’est l’extermination aussi des « sous-hommes » slaves.

Alors quand on lit sous la plume d’un journaliste _ mais est-ce vraiment là le principal ? _ « au grand étonnement des historiens et de la communauté juive« , ça me laisse perplexe.
Même si bien entendu, ce genre d’enquête est sans doute précieuse.  Mais cela n’a que la valeur du témoignage, c’est de la mémoire.  Et elle est aussi la quête des corps pour que le deuil soit définitivement possible sans doute… Ce travail me semble plus intéressant sur le plan psychologique qu’historique…

Ma réponse alors :

 De :   Titus Curiosus

Objet : Aktionen et « Shoah par balles »
Date : 17 novembre 2007 10:37:07 HNEC
À :  Historiana

Certes, on savait beaucoup de choses de cet ordre (aktionen, Einsatzgruppen, etc…).

Mais l’enquête du Père Desbois est systématique, et va interroger les témoins, notamment les « réquisitionnés« .

Ta réponse (« ce travail« ) porte-t-elle sur l’enquête ukrainienne du Père Desbois ?
Sur le dossier de presse ?
Ou sur ma « lecture » (d’une dizaine de pages), extraite de mon petit essai « Cinéma de la rencontre« , du livre du Père Desbois _ « sur la pire des mauvaises rencontres » ?

En tout cas, le Père Desbois fait avancer la connaissance et sur les témoignages qu’il recueille, et sur les fosses re-trouvées…
Et son livre _ la construction progressive, « sur le terrain« , de ses méthodes _ est passionnant.

Titus

J’ajoute aussi à ce »dossier« , ce message-ci, très remarquable, du photographe de l’équipe du Père Desbois, Guillaume Ribot, contacté alors :

De :   Guillaume Ribot

Objet : Rép : Patrick Desbois à Aix le 3 décembre
Date : 17 novembre 2007 22:28:05 HNEC
À :  Titus Curiosus

Titus Curiosus,

je vous remercie de l’intérêt que vous portez à notre travail en Ukraine et à l’action du Père Patrick Desbois.

J’ai encore eu peu de temps pour réfléchir sereinement à votre texte _ celui que je lui avais alors adressé à propos de « la pire des mauvaises rencontres« , extrait de mon essai « Cinéma de la rencontre » _ et vous en livrer un retour.
Pourtant, j’aimerais réagir à ce que vous m’avez écrit dans votre dernier message :

« Et certains, philosophes pourtant, m’ont avoué ne pas pouvoir seulement affronter pareil sujet de lecture« …

Oui, ce sujet creuse un abîme. Une marche glissante vers ce que nous avons de plus noir. Lire ou en parler en s’imaginant faire partie de la même humanité (m’)effraie.

Il est également si difficile d’en parler.

Dernièrement au cours d’un repas avec des amis (tous « intelligents » et « cultivés« ), après que l’un d’eux m’ait demandé de leur expliquer ce que je « faisais » en ce moment, je me suis rendu compte que je livrais quelque chose de trop lourd _ dans l’immédiat, à « recevoir«  frontalement… Comment parler de ces centaines de milliers d’innocents sans donner des précisions? Sans digressions ? Sans préciser quelques faits historiques ?

_ ce « détaillement« -là, aussi difficile, certes, (à réaliser) que nécessaire (à donner), est bien une question de fond pour une époque pressée (et surtout « intéressée » ; en plus d’égocentrique…) qui n’a de temps à « prêter«  qu’à de tout maigres résumés !!!

Je me rendais compte que mon propos monopolisait la discussion. Mais comment faire ? Personne ne pouvait (alors qu’ils le voulaient) changer de sujet. L’un d’eux a quand même osé le formuler. Je me suis alors empressé de leur montrer que ce sujet n’était pas si « simple« .  Tout le monde convient qu’il faut en parler et faire œuvre de mémoire

_ collective ? à défaut de personnelle ! « Mémoire«  est-il, cependant, tout à fait le terme adéquat ? Lire sur ce sujet ce qu’a commencé à fouiller Paul Ricœur : « La Mémoire, l’histoire et l’oubli«  _ ;

mais quand on livre une vérité, comme celle révélée par Patrick Desbois, l’auditoire ne semble plus si disposé…

_ remarquable terme : une « indisposition » provoquant vite une « indisponibilité« 

Ce sujet est « sparadrap« . Comment s’en défaire ? On en connaît la douleur. La noirceur. L’insondable. On veut en parler. On veut savoir. On veut lire. Pourtant, on finit par dire, comme vous l’écriviez : « ne pas pouvoir seulement affronter pareil sujet de lecture…« …
Le sujet a donc gagné. Que suis-je par rapport à lui ?
Je sens que mon propos manque de rigueur _ au contraire : il aborde de « l’essentiel« 

La meilleure manière de donner une suite à l’image de Marfa Lichnitski :  une autre prise _ jointe alors par Guillaume Ribot en « pièce jointe » _ quelques minutes après celle que vous avez décrite _ dans mon texte « la pire des mauvaises rencontres« Il s’agit du mari nous servant une soupe dans leur pauvre intérieur. Il faut savoir qu’avant notre arrivée inopinée, ils cuisinaient pour la semaine. Après l’interview, ils nous ont demandé de revenir dans 30 minutes pour qu’ils puissent nous préparer ce repas.
Je revois encore _ voilà la puissance de l’enquête du Père Desbois _ Marfa secouer la tête en entendant le témoignage de son mari. Pendant près de 60 ans ans, ils n’avaient jamais parlé de cette histoire.
Nous arrivons et nous recueillons leur parole.
Ceci est un privilège _ oui ! rare ; et de « haute humanité«  (face au poids si terriblement lourd, et depuis si longtemps, de l’atroce « in-humanité » vécue alors ; et comme indissolublement « souillante« , contagieuse, depuis…

Sans ces gens _ et le souvenir, depuis, de leur si forte « humanité«  _, je ne sais comment je pourrais moi aussi « affronter pareil sujet« .
Je pense souvent à Dora fusillée à Simféropol, à Ossip, à Olena, à tous les autres qui nous ont donné une part d’histoire… de leur histoire….. de notre histoire ! cf, sur ces personnes, le livre du Père Desbois avec les photos des « témoins » témoignant… de Guillaume Ribot : « Porteur de mémoires« 

Bien cordialement
Guillaume Ribot

PS : je suis ravi d’apprendre que vous êtes ami avec Bernard Plossu, car son travail m’a toujours plu. Je me souviens même avoir répondu au questionnaire d’entrée à l’école photo que j’ai suivie : « Quel photographe vous influence t-il ? » J’avais répondu, presque inconsciemment : « Bernard Plossu« , car j’avais en tête une image granuleuse et floue d’un palmier……….

Quel bouleversant témoignage de Guillaume Ribot, que voilà !

Le 25 novembre 2007, mon amie professeur d’histoire, avait encore répondu ceci, à propos des « témoignages« , à mon envoi d’un courriel évoquant ma « lecture-commentaire« , pour mon essai « Cinéma de la rencontre« , des « Exécuteurs _ des hommes normaux aux meurtriers de masse » de Harald Welzer :

De :   Historiana

Objet : Rép : A propos des « Exécuteurs »
Date : 25 novembre 2007 20:56:52 HNEC
À :  Titus Curiosus

Ai lu ton texte _ rapidement, parce que le moment n’est pas très bien choisi… eu égard à sa charge de travail _ et ai trouvé très intéressant l’analyse du livre de Welzer _ « Les Exécuteurs « , donc _ et du discours d’Himmler _ le discours de Poznan le 4 octobre 1943. Ce dernier me semble dans la droite ligne de ce qui était dit dans « Mein Kampf« … et qui justifie tout.

« Mein Kampf » : « Si l’on avait, au début et au cours de la guerre, tenu une seule fois douze ou quinze mille de ces Hébreux corrupteurs du peuple sous les gaz empoisonnés que des centaines de milliers de nos meilleurs travailleurs allemands de toute origine et de toutes professions ont dû endurer sur le front, le sacrifice de millions d’hommes n’eût pas été vain. Au contraire, si l’on s’était débarrassé à temps de ces quelques douze mille coquins, on aurait peut être sauvé l’existence d’un million de bons et braves Allemands pleins d’avenir »

Je n’ai pas le temps d’aller chercher dans mes notes maintenant, mais je me rappelle un stage sur les « Mémoires » de la Seconde Guerrre Mondiale où un philosophe nous avait dit des trucs intéressants sur le nazisme ; et notamment le fait que le nazisme, c’est l’absence de référence, c’est le refus de toute transcendance, de toute tradition (en contradiction totale donc avec le judaïsme). Il présentait le nazisme comme un système politique auto-référent, dans lequel l’homme est son propre Dieu, son propre référent ; donc totalement livré à sa subjectivité, sans lien avec le passé… Pas de Loi, pas de référence à la tradition. L’homme est alors _ se croit-il, plutôt ! _ totalement maître de l’histoire. Il vit dans l’immédiateté.
Et si je me souviens bien, c’est à peu près ce que dit Primo Lévi, quand il dit que la différence entre le SS et lui _ ce SS qui lui dit notamment : « Ici il n’y a pas de pourquoi » _, c’est que le SS est totalement libre, il n’a plus de référence, il n’ a plus de morale. C’est un barbare.

J’avais aussi trouvé très intéressantes les analyses de Pierre Legendre _ tout au moins ce que j’avais pu comprendre ! parce qu’il me manque bien sûr toutes les références juridiques et philosophiques pour « entendre » ce qui ne pose pas pour toi de problèmes! _ sur la société totémique et le fait qu’avec le nazisme, il n’y avait plus de référence totémique

LEGENDRE (dans un entretien) :
« C’est fatal, dans la mesure où le droit, fondé sur le principe généalogique, laisse la place à une logique hédoniste héritière du nazisme. En effet, Hitler, en s’emparant du pouvoir, du lieu totémique, des emblèmes, de la logique du garant, a produit des assassins innocents. Après Primo Levi et Robert Antelme, je dirai qu’il n’y a aucune différence entre le SS et moi, si ce n’est que pour le SS le fantasme est roi. Le fantasme, comme le rêve qui n’appartient à personne d’autre qu’au sujet (personne ne peut rêver à la place d’un autre), ne demande qu’à déborder. La logique hitlérienne a installé la logique hédoniste, qui refuse la dimension sacrificielle de la vie. »

Bon voilà, mais je n’y connais rien  !

En tout cas, le travail de Welzer me semble passionnant… Beaucoup plus que celui de Desbois _ qui n’a rien à voir avec lui, bien sûr _ mais pour lequel j’ai une grande réticence… ; et dont la lecture du livre, et particulièrement ses pages de justification.., m’ont agacée.

Le témoignage est parfois nécessaire, mais quand on sait ce qu’il en est d’un témoignage 60 ans après les événements, forcément totalement réécrit par la mémoire…

[J.-M. _ une autre amie professeur d’histoire _ a fait travailler ses élèves l’an passé pour le concours de la Résistance ; et elle avait décidé de travailler sur le maquis de Z… (un village landais). Et elle a fait parler les vieux du village. Et là elle s’est rendue compte de ce qu’était un témoignage ! Ils ont dit n’importe quoi, racontant comme y ayant participé des faits auxquels pour une raison ou une autre ils n’avaient pas pu assister, mais qui sans doute les valorisaient, mélangeant les dates, les hommes, fustigeant tel ou tel en fonction de quelque idéologie… Bref intéressant pour un travail sur la mémoire, mais pas pour l’histoire ! ]

Je veux bien que les médias se gargarisent _ mais est-ce donc là le plus important ? _ en prétendant qu’il _ le père Desbois _ fait le travail que n’ont pas fait les historiens, mais ce n’est pas un travail d’historien… Et le comble a été pour moi de voir sur Internet la vidéo du JT de Poivre d’Arvor _ même remarque de commentaire de ma part ! _ où on a présenté son travail… Les équipes de télévision entrant chez les Ukrainiens comme dans l’ancienne émission de J.P. Foucault « Ce soir chez vous« , ou un truc pareil !
Maintenant, au nom de la mémoire de la Shoah, tout est bon !

Sur ce, je retourne à mon travail.

Historiana

Ma réponse à cet avis :

De :  Titus Curiosus

Objet : Merci
Date : 25 novembre 2007 21:14:59 HNEC
À :  Historiana

Pour le travail du Père Desbois,

je comprends tes « réticences » sur les « témoignages« , mais suis moins pessimiste que toi.
D’abord, ils ont retrouvé beaucoup de fosses, grâce à ces « témoignages » ;
et ensuite dés-anonymer certaines des victimes n’est pas rien, ni peu…

J’y reviens dans ce que j’ai écrit…

Les témoins de Z., dans les Landes, et ceux des fosses d’Ukraine, n’ont pas tout à fait eu à faire, non plus, aux mêmes choses…
Les rumeurs et les silences n’y pesaient peut-être pas tout à fait le même poids.
Reste qu’on doit maintenir toujours la rigueur critique en ces matières de témoignage-là…

Merci, et à suivre,

Titus

Voilà pour ce dossier somme toute « important » ;

et qui demeure « à suivre« …

 Titus Curiosus, ce 9 juillet 2009

« Message in a bottle » depuis les fosses d’Ukraine (de « la Shoah par balles ») du photographe Guillaume Ribot

12nov

A propos d’un courriel cette nuit du photographe Guillaume Ribot ;

d’un article _ à son propos _ d’Alexandra Laignel-Lavastine : « Guillaume Ribot, les yeux sur la Shoah » dans l’édition du Monde du 11 novembre 2008 ;


ainsi que du travail de Guillaume Ribot dans

« Porteur de mémoires _ sur les traces de la Shoah par balles » du Père Patrick Desbois (aux Éditions Michel Lafon, paru en octobre 2007),

« Chaque printemps, les arbres fleurissent à Auschwitz » (édité par la ville de Grenoble, en 2005),

et « Camps en France, histoire d’une déportation » (un livre de 288 pages, paru au mois d’avril dernier, et édité par la Fondation pour la mémoire de la déportation : les camps de Gurs, Rivesaltes, celui du Groupement de travailleurs étrangers de Saint-Privat (133e GTE), Fort Barraux, Vénissieux, Drancy,

à travers le parcours d’un Juif allemand, expulsé d’Allemagne en 1940, Gerhard Kuhn, qui « a traversé 5 années d’internement et de déportation, dont deux sur notre territoire« )

Le 12 nov. 08 à 00:29, RIBOT Guillaume a écrit :

Bonjour à tous,

« Le Monde » vient de publier un portrait sur moi en pleine page.
Si vous voulez en savoir + : http://www.lemonde.fr/culture/article/2008/11/11/guillaume-ribot-les-yeux-sur-la-shoah_1117261_3246.html#ens_id=1117342
A bientôt
Guillaume


Comme la presse ne vit pas que du web :
vous pouvez aussi acheter la version papier
ou la version PDF : http://www.lemonde.fr/web/monde_pdf/0,33-0,1-0,0.html

Cher Guillaume,

Merci de votre message _ de n’avoir pas oublié quelqu’un qui il y a un an, à peine (ou déjà), a trouvé quelque part votre adresse mail, vous a adressé un message, auquel vous avez répondu…


J’avais découvert et le livre du Père Desbois _ « Porteur de mémoires » _, et les deux cahiers de vos photos insérés dans ce livre (à la page 96 ; et à la page 224) ;

et j’avais écrit sur votre photo du regard de Marfa Lichnitski et de son mari, Ivan…

Il est exactement 3h 23 ce mercredi 12 novembre ;
je découvre votre message, et j’y réponds immédiatement :

car cet article du Monde, d’Alexandra Laignel-Lavastine (mis en ligne le 11 novembre à 15h 52) me tire les larmes des yeux
par le poids des quelques brèves paroles de vous qui y sont citées :


je les énumère :

_ « mille et un renoncements » ;

_ « L’humain, sa fragilité et sa négation suscitent en moi un inépuisable questionnement«  ;

_ « Pas plus loin » (dans cette phrase magnifique d’Alexandra Laignel Lavastine : « Si les photos du voyage sont toujours dans un carton, cette plongée intérieure de 9 014 km l’aura amené au plus près de ce qu’il est. « Pas plus loin« , précise-t-il, en commandant une troisième bière à la terrasse du café de Sataniv, une bourgade autrefois juive, perdue au fin fond de la Galicie« … ;

_ « punkitude baudelairienne« , dit-il en riant ;

_ « réinscrire la mémoire des camps dans l’histoire des hommes » ;

_ « Guillaume, qui ne fait rien à moitié, a passé des jours et des nuits à l’imprimerie pour vérifier chaque cahier… » : celle-ci, de parole, n’est pas de votre bouche ; mais est un « témoignage » de votre « confrère Jean-Sébastien Faure » ;

_ « Comment se contenter simplement d’aller voir ? Et que répondre à ceux qui vous demandent : « Alors, Auschwitz, c’était bien ? » Un vrai trouble s’est installé en moi » ;

_ « Ce livre _ il s’agit de « L’Imprescriptible« , de Vladimir Jankélévitch (Seuil, 1996) _ a orienté ma carrière de photographe et ma vie d’homme. Je sais, depuis, que les morts dépendent entièrement de notre fidélité » ;

_ « si nous cessions d’y penser _ c’est le titre de son exposition de 2003 au Musée de la Résistance et de la déportation de l’Isère, commente, au passage, Alexandra Laignel-Lavastine _ nous achèverions de les exterminer » _ en faisant sienne une autre formule de Jankélévitch, achève son commentaire la journaliste ;

_ « Pour moi, tout a changé. Je ne pensais pas rencontrer des témoins oculaires » : ces mots-là sont cités à travers le témoigne du Père Patrick Desbois, faisant part de leur « rencontre » et de la première confrontation de Guillaume à l’exhumation des vestiges de « la Shoah par balles » :  voici la citation in extenso de Patrick Desbois, que je me permets de saluer au passage : « Guillaume était assis seul à l’écart, et il m’a dit : « Pour moi, tout a changé. Je ne pensais pas rencontrer des témoins oculaires. » Il s’est tenu silencieux sur ce banc, très longtemps, avant d’accepter de devenir le photographe de nos expéditions » ;

_ « à la limite » : dans l’expression d’Alexandra Laignel-Lavastine : « il assume pleinement cette façon de se tenir au plus risqué, presque « à la limite » de la pratique photographique » ;

_ « C’est là que j’aime chercher » (en parlant de ce « presque « à la limite » de la pratique photographique ») ;

_ « Plus les voyages avancent, plus je serre mon cadrage » _ à relier à un regard sur ses photos, forcément ;

_ « Travailler avec lui, estime le chanteur-compositeur _ Bruno Garcia _, c’est travailler avec quelqu’un d’une rare exigence envers son art _ toujours dans le sens, jamais dans l’effet. »

Toutes ces paroles,

de « l’inépuisable questionnement » sur « la fragilité«  _ permanente ! _ et « la négation«  _ qui eut lieu, et se répète, ici ou là, maintenant aussi ! _ de « l’humain« ,

au ne pas « se contenter simplement d’aller voir«  _ disons « à Auschwitz », pour faire court… _,

mais « réinscrire la mémoire des camps

_ et du reste des « exterminations«  (ou « la Shoah par balles ») _

dans la mémoire des hommes » : par la photographie, pour Guillaume Ribot ;

et cela par « devoir de fidélité » envers ces « morts » qui « dépendent entièrement de notre fidélité« ,

afin de ne pas _ par notre indifférence _ « achever« 

_ le mot est terrible et dit bien tout l’enjeu de civilisation, qui nous incombe ! au quotidien (de chacun de nos actes effectifs) !.. _

de les « exterminer » ;

toutes ces paroles de Guillaume Ribot, en cet article très fort du Monde, donc,

comportent un formidable (et assez rare, au quotidien des jours, pardon du pléonasme : peu fréquent) poids d’humanité

face à l' »humain » tellement en danger parmi nous, hommes ;

membres, paraît-il, de ce que Robert Antelme, de retour « des camps », nomma _ ou interpella comme _ « l’espèce humaine » !..

Merci…

Je vais diffuser ce message et cet article
sur le blog « En cherchant bien » (ou « Carnets d’un curieux » : c’est sous ce nom qu’il apparaît dans la case des blogs Mollat) que je tiens, depuis le 4 juillet 2008, sur le site http://blogamis.mollat.com/encherchantbien/

Bien à vous,
et je vous prie de faire part de mon meilleur souvenir à Patrick Desbois :

la demi-heure que nous avons passée dans ma voiture, de l’aéroport de Bordeaux-Mérignac à son hôtel de la rue du Temple, pour l’amener au colloque « Les Enfants de la guerre » le 31 janvier 2008,

puisque j’étais allé attendre le Père Desbois à l’aéroport, il venait de Madrid, à la demande de mon ami Nathan Holchaker, à l’origine de ce colloque ;

cette demi-heure, à échanger nos paroles, je ne l’oublierai jamais ;

non plus que notre conversation, ensuite, du repas du soir, place du Parlement, avec Georges Bensoussan _ dont le regard et le poids d’humanité sont aussi quelque chose…

A suivre,

Titus Curiosus


Post-scriptum : voici le texte que j’avais alors écrit _ puis adressé à Guillaume Ribot et à Patrick Desbois, en novembre 2007 :

_ le « sans regard » de la pire des mauvaises rencontres : la destruction génocidaire (nazie)
_ lecture de « Porteur de mémoires
«  du Père Patrick Desbois

Voici mon texte :

sans regard : les bourreaux de « la Shoah par balles »

Existe aussi le cas de ceux qui carrément ne veulent, et pour rien au monde, « rien voir » : de ce qu’ils font, des horreurs qu’ils commettent et auxquelles ils se livrent. Ils s’en lavent les mains et se mettent des tabliers _ ou comme Humpel, nous allons le voir _, pour ne pas être si peu que ce soit éclaboussée et « salis » ! Alors pour ce qu’il en est de commencer à « regarder » !.. S’attarder, s’arrêter à l’attention d’un regard !.. Cela mène trop vite à des égards ! Je pense ici au cas-limite et contagieux, une fois le premier geste accompli, des massacres, et des assassins, génocidaires ; et, plus précisément, aux meurtriers (« par balles ») _ à la chaîne et à la va-vite, par camions entiers, au lieu de « fournées » (de « fours crématoires ») _ de Juifs, par les vastes plaines à blé, ou dans les collines pré-carpatiques boisées, de l’actuelle Ukraine, entre 1941 et 1944 _ un « feu vert » ayant été donné en « haut lieu » _, faisant creuser dans l’urgence, le plus souvent au milieu même de villages qu’ils vidaient de leurs habitants ; faisant creuser, donc, de simples larges fosses collectives aux groupes qu’ils allaient assassiner, par rangs de cinq, dix ou vingt-cinq, à raison d’une balle dans la nuque ou dans le dos pour chaque corps qui allait tomber, après s’être déshabillé ; ainsi qu’avoir été délesté parfois jusque des dents en or ; les « meilleurs » vêtements se trouvaient recyclés, après passages entre les mains d’équipes (improvisées la veille au soir ou le matin même _ le travail, même fulgurant, avait ses « méthodes ») de couturières recrutées (de force) parmi les pauvres paysannes (non juives)… D’où le concept _ neuf (au-delà des « aktionen ») _ de « la Shoah par balles« … A propos de « se laver les mains », ce témoignage-ci d’un gardien de troupeau au lieu-dit la « Forêt sur les Juifs » _ elle a poussé depuis 1944 _ à Khvativ (district de Lvov) à propos de l’exécuteur qui « a demandé de lui apporter de l’eau pour qu’il puisse se laver les mains à la fin de l’exécution des Juifs » : « après se les être rincées, il a jeté la bassine derrière son dos, comme pour signifier : « Je m’en lave les mains »« 

« un continent d’extermination« 

On comprend le silence (ajouté au vide des archives _ vivier où savent puiser en priorité les historiens) des témoins (= enfants alors pour la plupart) encore survivants ces années-ci, que sont allés, tout récemment interroger _ je veux dire « solliciter avec égards » leur précieux « témoignage » (leur demandant que « celui-ci » leur soit « confié », et qu’eux le « recueillent ») _, sur place encore (= soixante-cinq ans après), un Daniel Mendelsohn, dans la bouleversante enquête sur la disparition de la famille de son grand oncle Schmiel (= Sam, en Amérique) de Galicie _ le père, Schmiel Jäger, la mère, Ester, et les quatre filles, Lorka, Frydka, Ruchele et Bronia _ à Bolekhov (province de Stanislavov, Galicie _ en Pologne alors), dans « The Lost : A Search for Six of Six Million« , publié par Harper & Collins en septembre 2006 (« Les Disparus » en traduction française chez Flammarion, en septembre 2007) ; ou, plus systématiquement (assez vite et désormais), le Père Patrick Desbois, par les grands espaces de l’Ukraine actuelle _ dont l’indépendance (vis-à-vis de l’ex-URSS) fut proclamée le 24 août 1991 : son livre « Porteur de mémoires _ sur les traces de la Shoah par balles » (aux Editions Michel Lafon, en octobre 2007) met en œuvre l’outil d’analyse qu’est le concept de « Shoah par balles« . « Sous mes yeux _ écrit le Père Desbois, page 217 _, la géographie de l’Ukraine, village après village, d’est en ouest, apparaît comme un continent d’extermination.« 

« la fosse a bougé pendant trois jours« 

C’était afin de ne pas « gaspiller de balles«  que bébés et enfants en bas âge, gisaient, ensevelis vivants, dans les fosses d’exécution, juste blessés par la balle ayant tué la mère, ou, pas même, carrément indemnes, mêlés à tous les corps abattus, puis recouverts de la couche suivante de cadavres, puis de sable, ou de chaux : les fosses _ de douze ou quinze mètres de long _ « respiraient » (page 92) ; « la fosse a bougé pendant trois jours«  (page 124), se souvient et dit, combien de fois, de lui-même, chacun (ou du moins beaucoup) des témoins (enfin « rencontrés » par l’équipe du Père Desbois), dans la solitude de son récit (= de « témoin ») de faits _ de faits bruts, et par leur « témoignage » maintenant authentiquement « avérés » _ ; de faits, donc, s’étant passés en 1941-1942-1943-1944. « Comment accepter que les témoins répètent que les fosses « respiraient » pendant trois jours ? Comment comprendre quand les paysans me parlent des fosses comme de quelque chose de vivant ?« , se dit encore réticent à en croire ses oreilles, au tout début de son enquête (page 92) le Père Patrick Desbois. Comme si l’effroi extrême _ celui de la frontière de l' »humain » brutalement (mais massivement aussi, « sous ordres ») « repassée en arrière » par les bourreaux (tirant à balles _ celles de carabines Mauser à chargeur de cinq !) : c’est là _ qu’un homme froidement en abatte, ainsi, un à un, tant d’autres (= aussi « humains » que lui) _ « le » critère de la « barbarie », ainsi que le dégage Michel Henry (1922 – 2002) en sa magistrale étude (« La barbarie« , chez Grasset, en 1987) _ ; comme si l’effroi d’avoir eu à regarder _ « à regarder vraiment », et pas seulement « avoir vu », comme « en passant » _ ce passé-là, n’avait, pour les « spectateurs-survivants » de cela, quelques soixante-cinq ans après, jamais fini de (et  par) « passer »… On finit par « comprendre » pourquoi « la fosse a mis trois jours à mourir » : « certains n’étaient que blessés, ou bien jetés vivants dans les fosses. Des pousseurs précipitaient ceux qui ne tombaient pas. Ils mouraient étouffés par les deux ou trois mètres de sable que l’on jetait sur eux«  _ comprend alors peu à peu celui qui « vraiment » « écoute » (page 93).

« le regard de ceux qui ont vu les Juifs se faire assassiner« 

Entre les témoignages qu’est allé recueillir le Père Desbois par tous les territoires de l’actuelle Ukraine _ les Ukrainiens se libérant assurément lentement de la crainte du KGB, depuis « l’indépendance » et l’instauration d’une « démocratie » en Ukraine _, je relève le « témoignage » du regard _ déjà _ de Marfa Lichnitski, le 30 décembre 2006, à Novozlatopol, district de Zaporojié, en Ukraine : « à l’instant où nos regards se croisent _ dit même Patrick Desbois présentant sobrement (comme chaque fois) leur rencontre _, nous nous comprenons. Mon grand-père _ Claudius Desbois (de profession marchand-volailler de la Bresse), prisonnier de guerre évadé et repris, passé par, et revenu du camp 325 de Rawa-Ruska : « une seule fois il avait lâché ces quelques mots : « Pour nous, dans le camp, c’était difficile ; il n’y avait rien à manger, on n’avait pas d’eau, on mangeait de l’herbe, des pissenlits. Mais pour les autres, c’était pire ! » Il ne pouvait pas en dire plus« , commente le petit-fils. « Mais qui étaient « les autres » ?  » _ ; mon grand-père, sans le savoir _ faute de pouvoir pouvoir dire, même à son petit-fils _, m’a appris le regard de ceux qui ont vu les Juifs se faire assassiner«  (page 190).

le regard de Marfa Lichnitski sur la photo de Guillaume Ribot

Et ce regard, en effet simplement extra-ordinaire, de Marfa Lichnitski _ elle est née en 1931 _ nous est aussi rendu, à notre tour, accessible, dans le livre magnifique de Patrick Desbois, par la photo (du photographe Guillaume Ribot, de l’équipe des collaborateurs accompagnant le Père Desbois en ses périples des villages ukrainiens, afin de « rencontrer » les derniers témoins encore en vie de ce que le Père Desbois a qualifié le premier de l’expression « la Shoah par balles« , et recevoir et recueillir (enregistrer, selon un « protocole » petit à petit, à l’expérience, et avec le plus grand « soin », « mis au point ») leurs « témoignages » (oraux) _ que nul jusqu’ici n’avait seulement « pensé » rechercher (= s’en enquérir, aller les demander, se mettre en situation de, simplement, les « écouter », « sur place ») ; et cela, en l’absence de la moindre archive écrite _ nazie, soviétique, autre (internationale ?) _ sur « cela » : « cela », une tache aveugle (et muette, et d’abord sourde) de l’Histoire, comme de l’historiographie, en quelque sorte.

l’incroyable regard sur l’image

Trois « points » _ de « focalisation » (ou le « punctum » barthien, dans « La Chambre claire » _ collection « Cahiers du cinéma », 1980, Gallimard-Le Seuil) _ de cette paisible (terrible en son silence) photo d’un intérieur paysan ukrainien à Novozlatopol, focalisent le regard : d’abord, le visage au faciès ridé (en haut à droite de l’image), baissé et détourné vers le mur, d’Ivan Lichnitski, le mari de Marfa, debout, bras ballants, et silencieux alors, sur la droite, donc, de l’image ; puis, au centre et un peu sur la gauche de l’image, surmontant un lourd et large corps revêtu d’un immense tablier bleu, le visage, un peu lunaire, plus petit, et de face, de Marfa, assise un peu en arrière-plan, bien calée, et pour cause, sur une banquette que couvre un tapis rouge et vert, contre le mur de la pièce, à gauche et en contrebas de la fenêtre lumineuse _ à son côté, tout à gauche, presque au bord de l’image, un tout petit chien posé sur la banquette _ c’est à peine si on le remarque au premier coup d’œil _, lève un regard affectueux en même temps qu’inquiet, humide, vers sa maîtresse ; et enfin, au premier plan, en bas et bien au centre de l’image, la silhouette impavide, dressée sur son séant, assis et de dos, du chat noir, tranquille, sur un premier tapis de couleurs rayé : la famille, animaux compris, est au complet. C’est Marfa qui parle ; tous, son mari, ainsi que le chat et le chien qui la regardent, l’écoutent _ Patrick Desbois, Svetlana Biryulova, la traductrice, ainsi que le photographe, Guillaume Ribot (et peut-être d’autres membres de l’équipe _ ils étaient onze en tout à Novozlatopol ce jour-là _ l’indication se trouve page 190), auxquels Marfa s’adresse, ne sont pas physiquement présents sur l’image. Le visage, pâle, chaviré, aux yeux grand écarquillés (et un peu rougis) de Marfa, légèrement de biais, nous apparaît tout à la fois profondément « retourné », pensif et interrogateur _ tant Marfa paraît ne « revenir » toujours pas de ce qu’il lui a été donné de « contempler » : la photo ici prise « reçoit » le visage dans le déploiement même du « travail » _ dans tous les sens de ce terme _ du souvenir, et de l’acte tout simple de « rendre compte » (=  parler à qui vous écoute), qui en émane directement _ à moins qu’il ne s’agisse pour Marfa à cet instant d’écouter à son tour la question, ou la réponse, du Père Desbois en train d’être traduite : on voit Marfa tendre un peu l’oreille, pendant que sa bouche, prête à continuer de parler, demeure entr’ouverte : vouloir faire le tour de l’intensité d’un tel regard serait vanité ou folie _ sauf peut-être à être un Lucian Freud. Marfa, au corps massif de soixante-quinze ans de travaux des champs _ comment est sa respiration à l’instant du cliché ? _, se tient assise lourdement sur la banquette sur laquelle reposent ses mains fatiguées ; ses pieds comme provisoirement basés ou campés sur le sol, installés dans de vastes pantoufles fourrées _ le Père Desbois nous précise (et c’est toute une éthique que la « précision ») que pour se déplacer elle doit utiliser un tabouret ; tandis que son mari écoute, les bras toujours ballants, et avec bien de la lassitude sur les traits labourés profond du visage _ écrasé peut-être par ce dont la voix de sa femme est en train de « témoigner » _, les yeux baissés à la fois de côté, vers le mur, et vers le sol (où au moins trois seaux et cuvettes sont posés sur la kyrielle bariolée de tapis) ; chez eux, dans leur pièce principale, à Novozlatopol.

le travail de « reportage » d’une équipe de collectage

L’image de ce regard de femme à ce point _ = degré (mais c’est aussi le « punctum« ) _ de désolation nous est donné parmi un plus que précieux cahier de photos en couleurs inséré entre les pages 96 et 97 du livre « Porteur de mémoires« . Et le témoignage enregistré, terrible lui aussi dans sa sobriété factuelle, de Marfa et Ivan Lichnitski, au cours de deux séances d’entretiens successifs ce jour-là, est rapporté tel quel de la page 194 à la page 214. Soit le résultat d’une séance, parmi toutes les autres, de « reportage » _ c’est le mot : re-porter, r-apporter, re-layer des « témoignages », en « témoignage », à son tour (= « témoigner » de « témoignages ») _, parmi les « porteurs » (de plus en plus âgés _ la vie passe) « de mémoire » : c’est là l’expression si juste du titre donné par le Père Patrick Desbois à ce grand livre, modeste « présentation » d’un grand travail (urgent, d’ampleur, et essentiel) de collectage, ré-collectage et/ou re-cueillement, ou encore re-cueil (de « témoignages ») _ quel mot choisir ? _ en cours… Une affaire importante. Face au « passage à l’as » des crimes et à l’oubli.

photographier l’acte même de la mémoire _ « là-bas, soixante ans plus tôt » _ dans « le regard _ fugace mais formidablement présent _ de ces yeux qui ont vu« 

De son photographe, Guillaume Ribot, Patrick Desbois fait cette présentation-ci (pages 70-71) : « A chaque rencontre avec un témoin de la Shoah par balles, il y a un moment, parfois bref, où le témoin n’est plus avec nous. Il est là-bas, soixante ans plus tôt, caché dans un buisson ou perché dans un chêne, non loin de la fosse, où les Juifs attendent la mort, là où on les assassine. Ce moment-là, Guillaume grâce à son regard et à la maîtrise de son art _ facteur « humain » et facteur « professionnel » indissolublement unis, si j’ose dire _ sait le saisir, sans voyeurisme, avec respect. Il parvient à exprimer _ soit relayer par cette simple image _ l’émotion _ perceptible et perçue alors par lui _ des témoins en les photographiant _ pour nous la donner à percevoir à notre tour, cette émotion fugace, qui, par la puissance de ce medium de la photo, vient atteindre et percer la couche d’indifférence de quiconque à qui l’image tombe sous le regard ; et qui accepte de la re-garder, contempler. Avec lui _ Guillaume Ribot, photographe_, je peux saisir _ pour toujours (et pour l’humanité tout entière) en « revenant » au regard du « témoin » (telle Marfa) saisi, puis conservé (= archivé), et devenu pour toujours accessible à qui regarde la photo _ le regard des témoins, ces yeux qui ont vu » _ et « voient », alors, ces instants-là, encore, ou/et toujours = (ne cessant plus jamais, même, de pouvoir les re-voir, « en pensée », en « mémoire active » et purement « réceptive » à la fois), à cet instant-ci (de la photo prise). Soit, pour le photographe, saisir en ce regard (présent, du témoin) ce qui, lui aussi (de ce qui est alors _ « objet » de la mémoire _ mentalement regardé, du passé lui-même, du souvenir _ d’horreur _ alors, en cet instant même, dés-enfoui du passé si péniblement maintenu à distance, tant forcément il a puissance d’obséder) ; je reprends le fil de la phrase : soit, saisir, en ce regard, ce qui, lui aussi, en un éclair, passe, telle une ombre (ou un ravage), sur le visage ; mais qui accède aussi, par la vertu de la photo, à l’expression gravée, sur la pellicule, de l’éternité à laquelle ce regard même s’était, en, et par, cet instant (rarissime), « hissé » _ plus encore que « glissé », comme par quelque interstice entre les parois de l’espace ;  ainsi qu’entre les travées des rails implacables des instants du temps qui ne cesse(nt) de s’égrener.

le glissement-hissement, dans et par le temps (et au présent), dans l’éternité ; du « témoin » ukrainien (comme du narrateur de « La Recherche« )
_ ou le « passage » ombreux et lumineux à la fois de la mémoire du témoin, et ce qu’il « ombre » du regard


De même que _ et aussi exactement « comme » _ le narrateur de « A la recherche du temps perdu » (le narrateur que Proust fait s’exprimer à la première personne du singulier : « Longtemps je me suis couché de bonne heure« …) « retrouve », « véritablement », les sensations _ moins graves et moins horribles, certes : non tragiques, sinon, tout de même, la fugacité (et mortalité _ incontournable _ qui va avec) de la vie ; ainsi que la peine, bien effectivement éprouvée, elle, de la perte de ceux que nous aim(i)ons et qui viennent de disparaître, ou ont disparu (telle « la grand-mère », dans le cas du narrateur du roman de Proust _ ou sa propre mère, pour l’auteur, soit Marcel Proust lui-même) ; de même que _ je reprends le fil de ma phrase _ le narrateur de « La Recherche « retrouve » « véritablement », donc, les sensations (éprouvées autrefois) de la saveur de la madeleine trempée dans le thé, l’alignement des clochers de Martinville (aux détours des sinuosités de la route), ou le dénivelé des pavés inégaux de Saint-Marc de Venise, à travers la sensation bien présente _ dans le présent de la narration de « La Recherche » _ des irrégularités du pavage de la cour d’entrée de l’hôtel de Guermantes _ et puis le bruit du choc de la cuiller contre une soucoupe (évoquant un bruit de marteau sur les roues d’une locomotive), et le toucher de la raideur empesée de la serviette disposée sur la table dressée (évoquant une sensation similaire au Grand-Hôtel de Balbec) _ bruit et toucher si forts alors _, à cette extraordinaire « matinée de la princesse de Guermantes« , qui « fait » l’éblouissant final du « Temps retrouvé » _ jusqu’à la fulgurance proprement renversante, pour qui s’y expose en le lisant, du « bal de têtes » : un sommet de la puissance du verbe poétique de la littérature. A comparer avec celle de quelques voyages outre-tombe : les voyages d’Ulysse, d’Énée, d’Orphée, de Dante avec Virgile, etc… La démarche d’écriture de Proust peut nous aider à pénétrer le sens de la démarche (= les « focalisations » _ des « enquêteurs » _ sur ce qu’il faut aider à « laisser venir », soit des « focalisations » du « regard » de la mémoire _ des « témoins ») de chacun des membres de l’équipe du Père Desbois, dans la mesure où l’effort de chacun d’eux est de re-cueillir ce passage _ en, avec et selon tout son tempo _, ce passage ombreux et lumineux tout à la fois de la mémoire (elle-même « re-cueillant », ou plutôt « ac-cueillant », ce qui « vient » et « se donne » à elle, ici, du passé, par le medium du souvenir, qui se met à « revivre », de son « tremblé », ou « scintillé », si singulier et troublant qu’il affecte de son ombre le regard tourné alors vers « le dedans »), à travers toutes les épaisseurs, pourtant, mais devenues soudain légères et transparentes, déposées par les temps et les sables accumulés d’une vie, jusqu’à l’advenue-parousie du « temps retrouvé« , sans majuscule ici : il s’agit de chaque instant qui lui-même re-vient, lui-même re-surgit, et res-suscite, de lui-même _ fut-ce, comme en l’occurence de la « Shoah par balles« , « un temps » vécu _ avec tout ce qu’il a aussi « imprégné », et ici saccagé et souillé _ ; fut-ce, donc, un « temps » vécu d’horreur insoutenable, à ce degré d’insensé, telle que la seconde du bruit du percuteur (de la carabine Mauser), la balle qui pénètre la nuque et déchiquette la matière grumeleuse cervicale (celle des arcanes luxueux du souvenir et des circuits fulgurants de la parole), avant que le corps tombe dans la fosse où il sera enfoui, gisant, sous d’autres couches de corps, de sable, et/ou de chaux.

ou selon le commentaire proustien du phénomène : « l’homme affranchi de l’ordre du temps à l’état pur« 

Dans l’expérience savoureuse, « de plaisir » elle, du narrateur-artiste de Proust, cela donne (pages 178 – 179 de l’édition Folio du « Temps retrouvé« ) : « Rien qu’un moment du passé ? Beaucoup plus, peut-être ; quelque chose qui, commun à la fois au passé et au présent, est beaucoup plus essentiel qu’eux deux. Tant de fois, au cours de ma vie, la réalité m’avait déçu parce qu’au moment où je la percevais, mon imagination _ d’artiste, poète, écrivain (qu’est, ou que voudrait être, le narrateur de « La Recherche » : dont cette œuvre est le récit même de l' »aventure » _, qui était mon seul organe _ d’artiste _ pour jouir de la beauté, ne pouvait s’appliquer à elle _ la réalité _, en vertu de la loi inévitable qui veut qu’on ne puisse imaginer que ce qui est absent. Et voici que soudain l’effet de cette dure loi s’était trouvé neutralisé, suspendu, par un expédient merveilleux de la nature, qui avait fait miroiter _ scintiller _ une sensation _ bruit de la fourchette et du marteau, même titre de livre, etc… _ à la fois dans le passé, ce qui permettait à mon imagination _ est-ce cependant le mot juste ici ? _ de la goûter, et dans le présent où l’ébranlement effectif de mes sens par le bruit, le contact du linge, etc… avait ajouté aux rêves de l’imagination _ ou plutôt à ce que vient donner le souvenir de la mémoire en acte ? _ ce dont ils sont habituellement dépourvus, l’idée d’existence _ et grâce à ce subterfuge _ idem _ avait permis à mon être d’obtenir d’isoler, d’immobiliser _ la durée d’un éclair _ ce qu’il n’appréhende jamais : un peu de temps à l’état pur. (…) Une minute affranchie de l’ordre du temps a recréé en nous, pour la sentir, l’homme affranchi de l’ordre du temps. » Le narrateur commente alors ainsi cet « évènement »-« avènement », nous donnant pas mal à penser pour éclairer l’ombre du passé passant alors sur le visage et le regard saisis au présent de l’acte de la mémoire : « Et celui-là, on comprend qu’il soit confiant dans sa joie, même si le simple goût d’une madeleine ne semble pas contenir logiquement les raisons de cette joie, on comprend que le mot de « mort » n’ait pas de sens pour lui ; situé hors du temps, que pourrait-il craindre de l’avenir ? » Et (page 182) : « De sorte que ce que l’être par trois et quatre fois ressuscité en moi venait de goûter, c’était peut-être bien des fragments d’existence soustraits au temps, mais cette contemplation, quoique d’éternité, était fugitive. Et pourtant je sentais que le plaisir qu’elle m’avait, à de rare intervalles, donné dans ma vie, était le seul qui fût fécond et véritable » _ ce dernier commentaire étant d' »artiste »… Il ne s’applique évidemment pas au regard de Marfa, au travail terrible de la mémoire qui advient ici alors en elle, et par l’absolu de son désolement…

et la capacité de recueillir ce phénomène-là par les « receveurs de témoignages » du Père Desbois (comme par l’auteur _ Proust _ de « La Recherche« )

Soit, pour quiconque s’y livre _ tels les « témoins » témoignant _, une véritable « expérience » (ainsi qu' »épreuve ») d' »instants d’éternité », en ce qui est « alors » _ en ces instants du présent, qui continue, lui, de couler (et heureusement), en son tic-tac mécanique ordinaire, ou plus encore le grain charnu qualitatif de sa « durée » _ vécu et ressenti, à rebours de  _ en même temps qu’en « cohabitation » avec _ la mécanique naturelle du temps physique, qui continue d’occuper, donc, et en permanence, notre quotidien. Une expérience poétique (ou/et mystique) aussi, à coup sûr. Certes. A cela aussi, il faut, pour ces « re-cueilleurs de témoignages-là que sont les membres de l’équipe du Père Desbois, aussi quelques aptitudes « poïétiques »… Re-cueillir le « passage de l’ombre » (en le regard) de tels « instants d’éternité » sur les visages (burinés de leur quotidien le plus prosaïque, sans trop vouloir préjuger) de ceux qui (= les témoins de l’horreur) en sont, si extraordinairement fugacement, affectés, et cela _ le « re-cueillir », pour le « re-cueilleur du témoignage » _, avec la plus grande délicatesse, requiert en effet infiniment de tact (= d’art _ pas seulement photographique) de la part du photographe, pour s’en tenir au cas précis de la photo de Marfa obtenue (= ac-cueillie) par Guillaume Ribot : pendant que Marfa « parlait » à Patrick Desbois via la traduction de Svetlana la traductrice. Cela rejoint une remarque faite ailleurs, un peu plus haut en cet essai, sur l’aptitude des peintres à figurer en peinture _ pour eux, les peintres, en leur œuvre propre, et leur (humble) coup de pinceau en de la matière colorée _ les mystères mystagogiques de la foi _ tel celui l’Annonciation, c’est-à-dire le passage, la visite de, et la rencontre de (et avec) l’Ange, pour la Vierge Marie. Le « protocole » _ qu’on se souvienne de la querelle d' »étiquette » des ambassadeurs de France auprès de la Sublime Porte, en « l’affaire du sofa » en 1678 et suivantes _ ; le « protocole » ici de « re-cueil des témoignages » mis au point par le Père Desbois, assisté, bien sûr, de chacun de ses collaborateurs « professionnels » _ chacun en sa « branche » de compétence « technique », ou « scientifique », ou « pratique » _, et se formant à tout cela (de si neuf et rare !) forcément sur le tas _ qu’est-ce qui aurait donc pu les préparer à « re-cueillir » et même d’abord à « saisir », et déjà simplement « rencontrer », de tels « instants », de cette qualité singulière et anomique là ? _ ; le « protocole » des entretiens, donc _ j’y arrive _, aidant, bien sûr, à préparer et encadrer cela _ im-préparable et in-encadrable, lui !

l’opération de « re-connaissance » des « disparus » retrouvés

Voilà ce que j’ai ressenti dans le regard foudroyé et le visage renversé (par le souvenir : auquel viennent d’accéder, et « à vif », et sa mémoire, et son récit, ensemble) de Marfa Lichnitski, calée sur sa banquette, chez elle, à Novozlatopol ce 30 décembre 2006. Chapeau à toute l’équipe de ne pas avoir « brisé » ni « effrité » cela, d’être allé jusqu’à ce que « se prenne » dans et par le « témoignage » cette « qualité d’humanité »-là « dite » (par la mémoire parlante du « témoin ») et « écoutée et reçue » (par les « re-cueilleurs du témoignage ») dans les villages presque perdus (et « retrouvés », car « rencontrés ») des quatre coins de l’Ukraine actuelle _ pour avoir été en 1941-42-43-44, « un continent d’extermination« . C’est la pierre angulaire (« professionnelle » aussi, et par « l’équipe ») de l’hommage rendu aux massacrés _ qui cessent « alors », si peu que ce soit, et à ces instants-là _ de « réception » des « témoignages », d’être seulement des « disparus » (« The Lost« , selon le terme de Daniel Mendelsohn, au départ de sa recherche : à partir de quelques paroles et souvenirs de parents (à commencer par son grand-père maternel, Abraham Jäger), déjà disparus eux aussi (morts) _ mais eux, on sait comment ; on peut se rendre sur leurs tombes (à New-York, ou à Miami) _, de quelques lettres, ou de quelques photos qui jaunissent) ; qui cessent, donc, d’être des « disparus », « perdus »et « séparés » (de nous), « évanouis », dont on est « sans nouvelles » depuis, dont on a perdu toutes traces, « engloutis » dans la nuit-néant océanique d’un définitif opaque oubli ; comme ils l’étaient _ « disparus » _ tant qu’on n’était pas, ainsi, (re-)partis « à la rencontre de » leurs traces, fussent celles _ des os, des douilles _ de leur exécution dans quelque fosse _ fut-elle au cœur de leur propre village (celui dans lequel ils vaquaient à leurs occupations, menaient leur vie), ou à l’orée du bois _ là-bas en Ukraine. « On » vient, pour eux et pour nous, de les « retrouver ».

résurrection de la connaissance

C’est comme si, par le « signal » tout neuf de leur « localisation », les cadavres absurdement sacrifiés de toutes ces vies absurdement volées, ressurgissaient tout vifs des fosses où on les avait contraint à venir (à pied, par camions, ou par trains) « disparaître » _ dès avant la résurrection de quelque Apocalypse. Telle celle que donne à admirer le pinceau de Luca Signorelli à la Cappella San Brizio du Duomo d’Orvieto ; ou celui de Michelangelo Buonarotti, à la Cappella Sistina du Palazzo Vaticano. Ou, en poésie, en français par exemple, le tableau si puissant qu’en donne la plume d’Agrippa d’Aubigné en ses « Tragiques« . Par exemple, au livre VII (vers 661-684) :

« Mais quoi ! c’est trop chanté, il faut tourner les yeux
Éblouis de rayons dans le chemin des cieux.
C’est fait, Dieu vient régner, de toute prophétie
Se voit la période à ce point accomplie.
La terre ouvre son sein, du ventre des tombeaux
Naissent des enterrés les visages nouveaux :
Du pré, du bois, du champ, presque de toutes places
Sortent les corps nouveaux et les nouvelles faces.
Ici les fondements des châteaux rehaussés
Par les ressuscitants promptement sont percés ;
Ici un arbre sent des bras de sa racine
Grouiller un chef vivant, sortir une poitrine ;
Là l’eau trouble bouillonne, et puis s’éparpillant
Sent en soi des cheveux et un chef s’éveillant.
Comme un nageur venant du profond de son plonge,
Tous sortent de la mort comme l’on sort d’un songe.
Les corps par les tyrans autrefois déchirés
Se sont en un moment en leurs corps asserrés,
Bien qu’un bras ait vogué par la mer écumeuse
De l’Afrique brûlée en Tylé froiduleuse.
Les cendres des brûlés volent de toutes parts ;
Les brins plus tôt unis qu’ils ne furent épars
Viennent à leur poteau, en cette heureuse place
Riants au ciel riant d’une agréable audace.
 »

Soit la force quasi thaumaturgique de l’Art : du moins pour nous lecteurs du poème aujourd’hui ; pas pour Agrippa d’Aubigné. Mais ne nous leurrons pas : il ne s’agit certes pas de cette rédemption-ci _ par la force d' »image » (et de « vision » offerte à délectation esthétique) de l’Art _ dans le sobre et élémentaire « travail de (re-)connaissance » de l’équipe du Père Desbois enquêtant. Mais d’abolir un peu du (colossal) silence « historique » de ces « disparitions » : exécutions en nombre, et d’une foule gigantesque d’individus _ les exécuteurs adressant les chiffres de leurs additions à leurs supérieurs à Berlin sous la forme codée, via bulletins météorologiques, de niveaux de pluviométrie ! _ ; d’une foule gigantesque, donc, de personnes anéanties, elles, une à une, par une balle unique. Diminuer un peu du vide (abyssal) de ces « disparitions », par la « lumière » (définitive) de ces « instants » de « mémoire effective », et « vrai témoignage », de la part de « témoins » « rétablis » au plein de leur « authenticité » de « personne », avant qu’eux-mêmes, par leur mort naturelle personnelle _ « la bouche emplie de terre« , soient définitivement rendus (= retournés) au silence. Effriter la moindre partie que ce soit du « secret » et du « brouillard » (complices) du crime advenu, par la moindre connaissance, déterminée dans le détail de la précision de ce qui s’est effectivement passé. Même si, du côté des bourreaux et des gestes de crime (= ouvrir la fosse + tirer la balle dans la nuque), résiste _ imprescriptiblement (cf Vladimir Jankélévitch) _ l’acte de Mal de l' »extermination ».
...
l’exploit du policier Humpel, à Senkivishvka, en 1941


A propos de bourreaux-exécuteurs, dans « Porteur de mémoires« , on trouve aussi ceci : au village de Senkivishvka (dans le district de Volhynie), en 1941, le policier Humpel, « avant de commencer, le matin, revêtait une blouse blanche, comme une blouse de médecin, puis descendait » _ dans la fosse. « Luba pense qu’il voulait protéger son uniforme. Régulièrement, il arrêtait les tirs, remontait, faisait une pause, buvait un petit verre d’alcool, puis redescendait« . Comment procédait-il ? « Il assassinait chaque Juif, l’un après l’autre, d’une balle dans la nuque« , venait de préciser Luba. Puis « une autre famille juive, dénudée, descendait et s’allongeait » _ dans cette même fosse. « Le massacre a duré une journée entière. Humpel a tué tous les Juifs du village, seul. » La sœur de Luba, Vira, « habite dans un autre village. Elle confirme le témoignage de Luba. Elles étaient ensemble, il y a soixante-et-un an, à côté de la fosse commune. Vira ajoute que Humpel, celui qui a assassiné les Juifs, a été tué par les résistants bandéristes, dans une forêt, pas loin. Après avoir interviewé ces deux femmes, je remonte dans notre camionnette. Je viens d’enregistrer le quatre cent soixantième témoin qui a vu l’assassinat par fusillade des Juifs en Ukraine » : c’est ainsi que le Père Desbois introduit le lecteur dans le vif de son sujet, presque au début de son premier chapitre _ intitulé « Ukraine, printemps 2007 _ 31 mars 2007, 10 heures du matin » (pages 11-12).

le désert de « témoins » qu’était l’Ukraine pour les bourreaux nazis

La litanie de la sélection des témoignages recueillis en Ukraine par le Père Desbois et son équipe est accablante (et sera le plus possible exhaustive, aussi, bien sûr _ et là, c’est une course contre la montre). Il ne s’agissait donc pour les bourreaux-exécuteurs (nazis et affidés) que de « corps » à le plus vite « abattre », « éliminer » et « liquider », telle une viande avariée infectieuse _ et répandant bien vite une atroce odeur pestilentielle. Témoins parmi lesquels, sous les regards desquels (ainsi que petite « main d’œuvre » auxiliaire, « réquisitionnée » sur place, très ponctuellement, en fonction des besoins, pour divers « petits travaux » adjacents _ « il me faudra des années pour comprendre l’ampleur des réquisitions« , précise page 104 le Père Desbois) ; sous les regards desquels, donc, se produisaient les massacres, directement dans les fosses creusées à cette fin ; les paysans ukrainiens n’ayant guère d’importance non plus _ si j’ose dire : mais il y avait des priorités dans le « nettoyage » (ainsi que dans les « ordres » venant de Berlin !) _, pour les assassins, au point de « compter » quasi « pour rien » ! comme peut seulement « compter » une main d’œuvre esclave, en ces opérations de « liquidation »  génocidaire _ ; les paysans ukrainiens, donc, ne seront pas même « éliminés » : les balles n’étaient que pour les Juifs _ « Une balle, un Juif. Un Juif, une douille« , ainsi que l’a rapporté le chef de la Einsatzgruppe D, le SS-Gruppenführer Otto Ohlendorf lors de ses conversations avec un psychologue pendant le procès contre les membres des Einsatzgruppen à Nuremberg, précise en note de bas de page Patrick Desbois, page 77.

la dignité d’une « écoute »

Qui chercherait, alors _ et aurait pu chercher jamais _ à entendre (= à écouter « vraiment ») d’aussi pauvres « sous-hommes », eux aussi _ même s’ils ne sont pas tout à fait aussi « bas » que les Juifs dans l’échelle de la « sous-humanité » _, « fondus » en quelque sorte, que de tels « sous-hommes » étaient, dans le « décor » de ce « nulle part » (= ce « désert » !) de l’Ukraine, pour les nazis de la pseudo « race aryenne », loin, si loin, eux, de leurs foyers _  leur « heimat » : soit encore une affaire de « focalisation »… Incapables, de devenir jamais, ces va-nus-pieds, de véritables « témoins » _ et crédibles ! Qui leur accorderait pareille dignité que celle de « témoins » ? Et, déjà, qui pourrait s’enquérir de quelconques « témoignages » _ « dignes d’écoute » _ de la part d’aussi misérables miséreux ? C’est qu’il existe bien de la marge entre « entendre, voir, parler », et « regarder, écouter, témoigner » !

la part de l’effroi dans le génocide

Cette remarque aussi de Patrick Desbois sur la « facilitation » du génocide à proportion de l’effroi _ des victimes comme de ceux qui y assistent (page 89) : « Cette tentation de ne pas penser est connue des génocideurs et de leurs complices ; elle est intégrée dans leurs plans. C’est peut-être pour cela que les génocides sont perpétrés sans souci de discrétion. Les assassins de masse savent que les témoins _ et même les victimes survivantes (tels Primo Levi, ou Imre Kertesz, à leur « retour », à Turin, et Budapest, comme ils en ont fait le récit, le premier dans « Si c’est un homme » (« Se questo è un uomo« , rédigé pour l’essentiel l’année 1946, et reçu dans l’indifférence à sa parution en 1947) ; et le second dans « Etre sans destin » (« Sorstalansag« , publié en 1975, ne rencontrant à sa réception que « Le Refus » _ « A Kudarc« , titre, ainsi que contenu, du roman suivant de Kertesz qui fait le récit de ce « rejet », éloquent, lui aussi, de ce dont « témoignait » « Etre sans destin« , à Auschwitz, à Buchenwald et à Zeitz ; et publié, lui, en traduction française par Actes-Sud en 2002 ; « Etre sans destin » étant paru aux Éditions Actes-Sud en janvier 1998) _ ; les assassins de masse savent que les témoins _ donc _ seront peut-être écoutés _ même pas, « entendus » seulement ; et encore ! _ mais rarement crus.«  « L’autre arme _ ajoute Patrick Desbois _ est l’indifférence« _ la force d’inertie. Cela rejoint l’incrédulité… Mais même « accepter ce savoir sur la Shoah à l’Est est _ ou était, pour ceux qui se lançaient en cette « équipée » _ un chemin difficile. Certains n’ont pas continué, ne pouvant pas supporter cette connaissance qui s’imposait brutalement à nous«  _ note le Père Desbois page 91. « Pour ne pas savoir, on se fabrique des a priori qui escamotent la réalité. Il me faut _ confie-t-il _ pour entrer dans une véritable connaissance, le temps de faire disparaître les clichés, et de laisser le réel s’imposer, peu à peu«  _ apprivoiser l’approche de la sauvagerie, brute et brutale, de ce « réel » faisant irruption, et, de son côté à soi, oser et savoir franchir le bouclier des résistances habituelles : soit toute une épistémologie, à la Gaston Bachelard (cf par exemple : « La formation de l’esprit scientifique _ Contribution à une psychanalyse de la connaissance objective » (chez Vrin, en 1934)… Ou un apprentissage de la rigueur et de l’honnêteté dans (toutes) les démarches du juger.

l’effroi : un régime de panique et de dé-focalisation

Quant à l’effroi, en son essence, c’est un régime de panique : un chavirage (total), assorti d’une éradication (totale également), de tous les repères tant soit peu installés ; une dés-installation ultra-rapide, violemment bousculée, et sauvage, oui, de toutes les familiarités (et familles, au régime de tranquillité plomb-plomb d’habitudes et de confiance(s) : « pacifiques », pacifiées _ la paix se tisse, patiemment) ; avec impossibilité de pratiquer assez promptement (= utilement et efficacement) de nouvelles « focalisations ». La panique terrorisante désempare totalement, toute patience d’attention étant détruite, privée du temps minimum de « focalisation » nécessaire pour se fixer de nouveaux « foyers de repérage », pour remplacer les « focalisations » ordinaires, tombées, caduques, d’un coup _ par cette agression sauvage _, et désormais « hors-service » ; à remiser d’urgence au grenier. A commencer par les plus simples questions : « où aller » ? où « courir » ? où « se cacher » ? où « se mettre à l’abri » pour survivre ? si _ et quand _ l’on n’a rien « prévu », ni si peu que ce soit « anticipé » ? C’est la panique ! Même pas _ ou si rarement (quelques gestes désespérés) _ le « sauve-qui-peut » ? L’innocent se précipite en courant dans la gueule du lion et du loup.

la stratégie de la terreur dans le programme des massacres génocidaires

Dans le cas des génocides et des génocidaires, la technique (soigneusement organisée et forcément programmée, elle, jusque dans sa sournoiserie endormeuse) de l’agression et de la terreur qui l’accompagne _ « terreur » à peine « mise en scène » : son cursus, violent _ et vite « professionnellement » rodé _, étant de lui-même, en lui-même, par lui-même, une fois « déclenché », assez « spectaculaire », au sens de « fascinant » _ et même « médusant » _, ici) ne laisse, avec son « temps d’avance » foudroyant (et ses armes qui tuent, bien sûr, et à tire-larigot !), pas le moindre « temps de pause » aux agressés et victimes (en familles) à assassiner, ni davantage, non plus, aux divers « témoins », tétanisés _ ceux sur place (les autres, je veux dire qui soient, si peu que ce soit, « mis au courant », « informés », sinon « alertés » _ mais sont-ce des « témoins » ? _ ; les autres « témoins », témoins « éventuels » seulement, donc, sont plus loin, ou très loin, par exemple les « acteurs », et/ou actants, de la dite « scène internationale » ! _ et vite à la merci de la distance et du « brouillard » dense de l’incrédulité, s’ils n' »interviennent » pas) _ ; la technique de l’agression et de la terreur ne laisse pas le moindre temps de pause, donc, afin de procéder si peu que ce soit aux mesures de « re-focalisation » qui seules permettraient de s’aviser, et « à temps » _ un « à temps » diantrement utile, ici ! _, de ce qui survient et surprend et affole (tragiquement, mais sans la distance, ici, sur cette « scène-de-crime », existant entre la salle et la scène, au théâtre ; ou la salle et l’écran, au cinéma : avec « mise à mort », ici, donc _ en une fosse qui n’est pas la fosse d’orchestre) ; et surtout sans le temps de mettre en place _ sinon à de très rares exceptions près _ des stratégies vraiment efficaces de réaction : échappée, fuite, mise à l’abri, protection et sauvegarde. Où vivre (et rester) caché à l’instant même ? Où continuer à vivre en ce nouveau quotidien ultra-bousculé, violent, meurtrier ? La technique à grande échelle de l’effroi et de la terreur _ technique de guerre et de destruction (massive, et ne s’embarrassant guère, non plus, de trier entre « population civile » et « soldats ennemis en armes ») _ est aux antipodes des arts de l’é-gard et du re-spect _ avec ce qu’ils comportent de distance et de temps (de ré-flexion) _, qui sont des arts de la civilité ; et de la civilisation qui s’en-suit _ de cet é-gard et de ce re-spect, à distance polie et « affectueuse », veux-je dire. Tempérée dans son attention et sa mobilité ; qui tient alors quelque chose de la danse. Ni paniquée, ni tétanisée, ni inerte. Sur ce qu’impliquent (= demandent) le visage et le regard, relire la méditation fondamentale (le « Ne me tue pas ! » du regard) d’Emmanuel Lévinas (1906 – 1995) : « Ethique et infini » ; « Entre nous _ Essais sur le penser-à-l’autre« .

les processus de civilisation de la civilité : une dynamique (plurielle) à mettre en place, activer et entretenir

La civilisation _ et déjà sa dynamique même, avant ses résultats _ : la civilisation, donc, de la civilité, c’est le « commerce » et la « société » _ actifs ! _ de la co-existence paisible, pacifique, et d’abord, ne nous leurrons pas, « pacifiée » _ qu’il a fallu  _ et qu’il faut, et qu’il faudra, encore et toujours, bien sûr, continuer de _ pacifier (= éduquer à la paix) ! _, entre des personnes qui ont bien voulu  _ et continuent de s’efforcer, activement, et non pas seulement « à leur corps défendant », de bien vouloir _ renoncer à s’agresser ; et ont décidé de  _ et continuent de _ déposer les armes (les épées, les poignards) ; de ne plus se battre en duel, pour une peccadille, mais de se saluer (se serrer la main désarmée et dégantée), se parler et converser : s’écouter et se répondre l’un l’autre. La « civilisation des mœurs » _ le livre, majeur, de ce titre (« Über den Prozess der Zivilisation« , « La Civilisation des mœurs« ), du philosophe et sociologue Norbert Elias (1897 – 1990), paru en Suisse en 1939 _ la date et le lieu ne sont que trop significatifs _, devra attendre sa réédition en 1969 (la traduction en français, chez Calmann-Lévy, date de 1973, pour sa première partie, sous ce titre ; et de 1975 pour la seconde, sous le titre de « La Dynamique de l’Occident« ), pour être enfin « effectivement reçu » (= lu, commenté, discuté, compris) d’un plus large public _ ; la « civilisation des mœurs », donc, et des « arts » _ au quotidien, et dans, et par, le quotidien _ « de la paix » _ je dis bien « et des « arts de la paix » », au pluriel _, c’est, après l' »adieu aux armes », et, positivement, la mise en place, puis l’entretien, au quotidien, en effet, de processus authentiques de « vraies » négociations, de « vrais » accords, de « vrais » contrats : toute une construction, de participation active et de toilettage permanents _ non unilatéraux, avec la mise aux point de compromis complexes _, ainsi que d’institutionnalisation de « rencontres » qui soient, elles aussi, « authentiques », « vivantes » et « confiantes » _ toute une éthique aussi ; et pas « de façade », pas hypocrite (du style « faites ce que je dis, et pas ce que je fais ») : il y aurait aussi beaucoup à dire sur l’efficace, unique _ ou « vertu « vraie », et pas seulement nominale ! _, de l’exemple ; versus les mensonges endémiques proliférants ces temps, jusqu’à s’afficher sans vergogne « décomplexés » _ assortis, les mensonges, et renforcés, du considérable succès idéologique de « la morale » et des « moralines » aujourd’hui, particulièrement, bien sûr, dans les médias : le Janus biface plaisantant grassement, à l’occasion, de son propre « sans-gêne », devant le public ébaubi s’étourdissant de ses propres applaudissements au « virtuose » _ admiré pour la performance formelle ! (sans rien, et pour cause, de « fond » !)_, et en redemandant, qui plus est ! Le vice ne l’est jamais autant que sur fond (brouillé) de ses propres hommages menteurs à la vertu, c’est bien connu (« Tartuffe« ) _ mais pas assez compris : « vraiment » compris. A comparer avec la « vraie politesse du cœur ».

cinéma de l’effroi et arts de la rencontre

Si « cinéma » de l’effroi il y a là, en cette « technique » de la terreur armée et meurtrière (dont le comble est ce massacre génocidaire _ par exemple, cette « chasse aux Juifs » en Ukraine de 41 à 44), il est aux antipodes des rythmes _ alentis _ et « arts » _ de « vraie » douceur _ de la « rencontre » personnelle, avec ses « apprivoisements » (et « focalisations » des regards) délicats et nuancés dans leur détail, même s’ils demeurent toujours fondamentalement fragiles _ ouverts qu’ils sont, non moins fondamentalement à (et sur) l’altérité : l’altérité de l’autre comme, aussi l’altérité de soi (et en soi-même : Paul Ricœur intitule un de ses grands ouvrages « Soi-même comme un autre« , aux Éditions du Seuil en juin 1996) _ ; ajoutées à leur « alliage » entre elles, fin, délicat, complexe _, et échouant souvent, peut-être, aussi _ il n’est pas facile de transformer la fébrilité affectueuse du corps désirant (= de la chair _ aux antipodes de la « viande », ou du « muscle ») en l’inquiétude sereine et heureuse du vrai tact d’un « amour » vrai : comme dans le cinéma, « à la ferraraise », d’un Michelangelo Antonioni. Nous ne cessons de tourner autour.

détruire les traces matérielles du génocide : l’opération « 1005 » _ la perspective du Tribunal de l’Histoire

Un chapitre de « Porteur de mémoires » _ je m’y recentre _, le chapitre XVI _ « La maison-mère du négationnisme : la 1005 » _ livre aussi au dossier le détail factuel de la mise en œuvre « technique » méthodique (dès l’été 1942) de l »élimination systématique des « traces matérielles » du génocide, confiée à la direction du SS Paul Blobel, et codée « 1005 » » ; à partir du cas précis d’un témoignage assez éprouvant, celui de Maria, à Voskresenské (dans le district de Nikolaiev), le 13 juillet 2006 : l’équipe de prisonniers de guerre soviétiques qui avaient « dû » _ suite à l’inondation d’une « fosse » à cadavres de Juifs lors d’un débordement de la rivière proche qui « avait découvert des corps qui étaient encore entiers » _ ; ces prisonniers avaient « dû ouvrir la  fosse, verser de l’essence et les brûler » ; et bien, ces prisonniers de guerre, enfermés à l’intérieur du « poulailler du kolkhoze » (transformé en la prison de ces prisonniers) sur lequel on avait déversé des flots d’essence, tous pris au piège, « ont brûlé vivants » : « les cris étaient terribles« , raconte ravagée de sanglots Maria (en son témoignage des pages 232 – 233, qui complète le chapitre). Si les nazis tenaient pour quantité négligeable (= pur « décor » et « désert ») les paysans ukrainiens (simples spectateurs impuissants, ou « réquisitionnés » et si peu que ce soit désormais « complices » _ « la liste des petits métiers de la mort est longue et à chaque voyage elle se rallonge« , note le Père Desbois page 124) auxquels ils laissaient, comme avec indifférence, la vie ; en revanche, ils se méfiaient très sérieusement de la machine étatique soviétique, l’ennemi de guerre, et de ses procédures rodées. Mais, à l’échelle de l’URSS, « les SS chargés de brûler les corps _ au lieu de les laisser pourrir dans les fosses _ avaient sous-estimé leur travail et s’étaient englué dans les charniers des grandes villes. L’avancée de l’Armée rouge interrompit leur volonté de destruction«  _ destruction de ces cadavres, qui allaient en conséquence de quoi poursuivre leur décomposition dans les fosses, note en conclusion du chapitre Patrick Desbois, page 229. Et dont les os qui demeurent, non dissous, ni partis en fumées, constituent, pour qui les re-cherche et les re-trouve par son enquête « scientifique », autant de « preuves » avérant les « faits » (bel et bien advenus), pour l’instruction du procès « à mener » encore _ ces crimes demeurant « imprescriptibles » : cf le livre de Vladimir Jankélévitch « L’Imprescriptible » _ ; l’instruction du procès à mener, donc, devant le tribunal de l’Histoire (et pour l’opinion universelle : l’humanité), des atrocités réalisées alors (entre 1941 et 1944) et là (en Ukraine, des Carpates jusqu’au « Don paisible« ).

le recueil de « dernières paroles » : « Olena, Olena, sauve-moi !« 

Les noms de chacune des victimes (et de toutes) « identifiées » par des « témoins » _ leurs voisins, leurs amis _ à l’instant (ou sur le chemin) de leur exécution dans les fosses (ou assassinées autrement) _ = les « identifiant » nominativement, quand cela est possible, pour la postérité, à défaut de leur donner une sépulture « personnelle » _, sont précieusement « re-cueillis » par l’équipe du Père Desbois, parmi l’établissement des diverses données factuelles des exactions (dans toute la gamme de l’horreur) ayant eu lieu en 1941, 42, 43 et 44, dans ce qui constitue le territoire actuel de l’Ukraine. De même, les exemples identifiés de quelques personnes ayant tenté de fuir au cours du transport vers les fosses d’abattage, s’ils ajoutent à la désespérance, renforcent aussi la foi en la mission « pour la mémoire des disparus », auprès d’éventuels descendants de survivants de ces personnes (et familles) massacrées : tout est méticuleusement archivé, avec les méthodes les mieux éprouvées, par l’équipe du Père Desbois. « Chaque témoin est unique, comme une protestation unique contre l’anéantissement abject de ses voisins juifs assassinés« , résume parfaitement le Père Desbois, à l’entame du chapitre XV, « Un village, une extermination« , page 215. Par exemple, à Khvativ (dans le district de Lvov, au pied des Carpates), un des tout premiers témoignages _ obtenu après un très long moment de réticence, avant de se décider à « parler enfin ! » _ d’Olena, quatre-vingt onze ans : « Dans l’un des camions _ « militaires allemands » et « remplis de femmes juives » _, soudain elle a reconnu une amie de sa mère qui s’est mise à crier : « Olena, Olena, sauve-moi ! » Elle reprend son souffle : « Plus elle criait, plus je me cachais dans les blés. J’étais jeune et j’avais peur que les Allemands nous tuent comme ils tuaient les Juifs. Cette femme a crié jusqu’à ce qu’ils la conduisent à la fosse. Jusqu’au dernier moment je l’ai entendue crier : « Olena, Olena, sauve-moi !«  » « C’est la première fois _ commente Patrick Desbois au présent de son compte-rendu, à la page 84 du livre _ qu’un témoin nous transmet les dernières paroles d’une personne juive exécutée par les nazis.«  Avec cette conclusion-ci, encore : « avec ce récit _ d’Olena _, je découvre que les témoins connaissaient les victimes par leur nom«  ; mais aussi en même temps « qu’ils ne pouvaient rien faire«  (page 84, toujours) : ce qui provoque une lourde mauvaise conscience. Bien vite, cependant, les « récits de témoins » de ce génocide « par balles » d’il y a soixante-quatre, soixante-cinq, puis, à ce jour _ le compte à rebours défilant _, soixante-six ans, vont se multiplier…

une ingéniosité de terrain en même temps que systématique au service des méthodes et du protocole d’enquête

Ainsi, de la moindre « découverte » _ le chapitre VII s’intitulant « De découverte en découverte » _, le Père Desbois, bourguignon de formation mathématique, esprit vif et aigu s’il en est, en même que caractère patient et déterminé _ que rien n’arrête facilement _, tire-t-il immédiatement, avec un redoutable sens de la déduction autant que du pragmatisme, un « enseignement de terrain » qui lui permet régulièrement d’affiner _ analytiquement _ et systématiser _ synthétiquement _, de concert, et avec la plus redoutable efficacité, méthodes et « protocole » les plus subtils d’enquête que jour après jour il a à élaborer, et appliquer, avec son équipe. Le tout formant une « méthodologie » _ le chapitre XI s’intitule « De l’empirique à la méthodologie« .

« les dernières paroles des morts » et « les dernières paroles du Christ« 

Pour le Père Desbois, prêtre catholique, l’expression « dernières paroles » _ « Je me souviens de (chacun de) ces gens qui transmettent les dernières paroles des morts« , souligne-t-il page 176 ; « tous ceux qui, jusqu’à aujourd’hui, ont gardé en mémoire les dernières paroles de leurs amis«  (page 177) _ ; l’expression « dernières paroles« , donc, ne peut manquer d’évoquer l’exemple des « Dernières Paroles du Christ » (= crucifié, sur la croix), recueillies _ au nombre de sept _ dans les évangiles de Jean, de Luc et de Matthieu _ soit dans le texte de la vulgate : « Pater, dimitte illis ; non enim sciunt, quid faciunt » (Jean, XIX, 17-18) ; « Amen dico tibi : hodie mecum eris in paradiso » (Luc, XXII, 39-43) ; « Mulier, ecce filius tuus, et tu, ecce mater tua » (Jean XIX, 25-27) ; « Eli, Eli, lamma sabbacthani ? » (Matthieu, XXVI, 45-47) ; « Sitio » (Jean, XIX, 28-29) ; « Consumatum est » (Jean, XIX, 28-29) ; et « Pater, in tuas manus commendo spiritum meum » (Luc, XXIII, 44-46). En français : « Père, pardonne leur : ils ne savent pas ce qu’ils font » ; « En vérité je te le dis : aujourd’hui tu seras avec moi au paradis » ; « Femme, voici ton fils ; et toi, voici ta mère » ; « Mon Dieu, Mon Dieu, pourquoi m’as tu abandonné ? » ; « J’ai soif » ; « Tout est consommé » ; et enfin « Père, je remets mon esprit entre tes mains« .

égards de parole et d’écoute

Parler _ fût-on le Christ (sur la croix, donc) _, c’est forcément parler à quelqu’un _ à son Père ; au « bon larron » _ comme au « mauvais » _ mourant à côté de soi ; à sa mère et à son frère (ou ami), tel Jean l’Evangéliste ; au Seigneur, à nouveau ; aux centurions-gardiens ; peut-être à soi-même ; et enfin, à nouveau à son Père, pour ces sept « paroles » du Sauveur. C’est se tendre, se tourner _ telle Marfa sur la photo _, vers une écoute ; « s’adressant », comme on dresse l’oreille, à cette écoute, au moins éventuelle, sinon effective ; demander cette écoute ; la quérir, en faire la prière : « s’il vous plaît ! » ; en attente sans doute aussi de quelque réponse, c’est-à-dire d’un é-gard : le contraire de _ vox clamans in deserto _ crier désespérément, car en vain, dans le désert. Parler, c’est espérer forcément une écoute _ quelque écoute ; et déjà s’apprêter à la recevoir, et à y répondre, à son tour, comme en (et à) quelque é-gard que ce soit, qu’on reçoit. Dialoguer, converser. Comme un regard que quelqu’un, quelqu’un d’autre que nous, à nous, spécialement, nous accorde (= nous donne) _ et qu’on lui rend (= lui donne), à notre tour ; bien loin de lui faire l’affront de le lui refuser ; ou le lui « rapporter ». Un autre avec lequel « nous faisons » ainsi « commerce » et « société », pourrait-on dire, si ces expressions ne se trouvaient souvent bien dévaluées, détournées, par les temps qui courent… « Nous entretenir » _ ensemble et mutuellement _, au lieu d’agir, soi seul (ou dans son coin), « à sens unique », parmi de pures choses, qui ne répondent pas : soit un désert ; ou carrément contre autrui. Carmen, l’institutrice, dans la « séquence ferraraise » d' »Al di là delle nuvole » _ « Par-delà les nuages« , en 1996 _ d’Antonioni, sur les images de laquelle séquence nous nous sommes un peu penchés, distingue ainsi le simple « bruit de la mer« , qui s’évanouit (= se dissipe, se dissout, « disparaît »), de la musique, en ritournelle, des « paroles » humaines (des « mots« , dit-elle), qui demeure, elle _ cette musique prenante des mots _, longtemps, voire toujours, dans l’air, à « nous parler« … Aussi sommes-nous bien loin de quitter, ici, à propos de ces « ultima verba » (des massacrés), le territoire et la configuration de la « rencontre », en l’éventail, la palette, la gamme, de ses occurrences et facettes, et par ce détour même (ou incise) des « massacres par balles » des fosses collectives d’Ukraine, ces années de la dernière décennie quarante…

« Les Sept dernières Paroles de Notre Sauveur sur la Croix » : l’œuvre musicale de Josep Haydn pour à la chapelle de la Santa Cueva de Cadix

Les « dernières paroles » du Christ (en croix) _ j’y reviens _, telles, aussi, que Joseph Haydn les a mises en musique pour l’office (avec un rituel spécifique et original) du vendredi-saint de la « Hermandad de Santa Cueva » à Cadix, à la demande, en 1785, de José Saenz de Santa Maria, marquis de Valde-Inigo, et chanoine de cette église _ le marquis venait de perdre son père, à la mémoire duquel c’était là, aussi, pour lui, une façon de rendre hommage avec grandeur. L’œuvre de musique de Joseph Haydn _ en allemand « Die sieben letzten Worte unseres Erlösers am Kreuze » _, composée tout spécialement pour cette « Confrérie de la Sainte Grotte » à Cadix, en Andalousie, était à l’origine seulement instrumentale. L’évêque qui célébrait cet office consacré à la méditation du sacrifice rédempteur du Christ, prononçait en effet du haut de la chaire chacune des paroles du Sauveur sur la croix, assortie d’un commentaire, que venait ensuite prolonger une paraphrase musicale (développée à raison d’une dizaine de minutes pour chacune), afin de « soutenir » la « méditation » orante des fidèles sur ce legs, tout uniment divin et humain, du Rédempteur. En forme de rotonde, le temple tout tendu de noir de la crypte se voyait plongé _ la célébration commençait à la demi-journée _ dans le recueillement de l’obscurité _ celle-là même de la Crucifixion de Jésus, en dépit du plein-jour extérieur : rappelant le rituel de « Ténèbres », à matines, lui, où les treize cierges demeurés allumés sur l’autel étaient successivement éteints, jusqu’à ce que le dernier (représentant le Christ), soit _ sans être éteint, lui _ seulement ôté de la vue des fidèles, déposé derrière l’autel (pour réapparaître en gloire le dimanche de Pâques _ les autres cierges, représentant, eux, les apôtres) ; le jour venant lentement bientôt dissiper la ténèbre.

le rituel des « Sept dernières paroles du Christ » à la chapelle de Cadix

Les parois, les (rares) ouvertures et jusqu’aux colonnes de la chapelle de cette crypte, étaient en effet entièrement tendues de voile noir ; seul un lustre-chandelier, suspendu au centre de la rotonde (constituant la chapelle), proportionnait son éclairage tremblé, mouvant, à l’obscurité de la cérémonie rappelant le ciel d’encre (de tempête) de Jérusalem au moment de la mort de Jésus. A midi même, les portes du temple étaient ainsi fermées, et commençait la musique. Après ce prélude du concert d’instruments, l’évêque, monté solennellement en chaire, y proclamait la première des sept paroles, assortie d’un commentaire de sa signification pour la foi. Puis, redescendu de la chaire, le célébrant s’agenouillait devant l’autel. Et c’est à ce moment de recueillement de l’assemblée des fidèles, que la symphonie revenait prolonger et nimber de son halo harmonique (= par une sonate, paraphraser mélodiquement) la parole commentée. Et ainsi, pour chacune des sept paroles, l’évêque montant en chaire, en redescendant, et l’orchestre déployant à chaque reprise ses phrases musicales pour accompagner la méditation des mots du Christ. Joseph Haydn (1732 – 1809) appliqua pour sa composition ce schéma du rituel de la Confrérie ; et compléta les sept développements musicaux (sept fois adagio) par une introduction et un final, le terremoto ou tremblement de terre, afin de figurer celui qui marqua, zébrant des éclairs de la tempête éclatant alors, le passage à l’éternité du Christ. C’est sous cette forme instrumentale orchestrale (pour 2 flûtes traversières, 2 hautbois, 2 bassons, 4 cors, 2 trompettes, timbales, violons, altos, violoncelles et contrebasse) qu’ainsi l’œuvre fut donnée à la Santa Cueva de Cadix, le vendredi-saint 6 avril 1787, en début d’après-midi, donc. Avant de devenir bientôt aussi, suite à son retentissant succès par toute la catholicité, un oratorio ; les « Paroles du Christ » n’étant, cette fois, plus prononcées (non plus que commentées) par le célébrant, mais chantées par un chœur. En 1792, en effet, Joseph Friebert (1724 – 1799), chanoine et directeur musical de la cathédrale de Passau sur le Danube, en avait réalisé une version chantée pour chœur (sur un texte en allemand qu’il avait commandé au poète berlinois Karl Wilhelm Ramler _ 1725 – 1798 _ membre de l’Académie royale, ainsi que directeur du Théâtre royal de Prusse, à Berlin) ; laquelle version d’oratorio fut donnée à la cathédrale de Passau le vendredi-saint. En découvrant un peu plus tard cette « adaptation » (bavaroise) pour chœur de son œuvre orchestrale (gaditaine), Joseph Haydn se mit à remanier, avec l’amicale participation du baron Gottfried van Swieten (1733 – 1803), la partition chorale de Friebert, tout en conservant le texte de Ramler pour les paraphrases de commentaire des « sept Paroles » du Rédempteur. Cette nouvelle et dernière version des « Sept dernières Paroles de Notre Sauveur sur la croix« , sous forme d’oratorio, donc, fut publiée par Breitkopf & Hartel à Vienne, sous l’autorité du compositeur, en 1801.

« Adieu la vie !« 

Et avant de quitter cet intense chapitre (des « dernières paroles« ), cette sublime simplissime « dernière parole »-ci, juste avant la claque du percuteur, du garçon juif à son amie Anna, lequel garçon  _ qui « était avec (elle) à l’école » _, la « sachant cachée dans une baraque en bois« , tout à côté, « au moment de se faire fusiller, s’était retourné vers elle en lui disant : « Adieu la vie ! » »(page 176). Ou comment, envers et contre tout, se réserver _ en le partageant sonorement : « Adieu la vie !«  = aussi « adieu l’amie ! » _ tout de même « le mot de la fin » ; et mot, encore et surtout, d' »amour de la vie » _ une vie « approuvée », y compris jusque là, en cette « affirmation-célébration » du bord de la fosse. Comme une nique _ plus que d’adolescent _ au regret abyssal forcément, mais forcément sans s’y attarder (trop long et lourd : surtout en pareille urgence !) ; comme une nique à la piqûre de regret de la perdre, cette rare vie-là, à ce jeu de comble d’absurdité.

Deux legs de chants d’allégresse « à la vie » : le cri de l' »adieu » du garçon juif de Bousk ; et l’explicitation de son « passer le temps » ou « s’y tenir » par le sage de la tour de Montaigne


Parole d' »Eternel retour« , à la Nietzsche (une fois saisie toute la dimension _ vertu _ d' »épreuve » de pareille « intuition »). Ou à la Montaigne au final (lui aussi : livre III, chapitre 13) des « Essais » : après une explication détaillée de son « dictionnaire« , « tout à part (lui) » : « je passe le temps, quand il est mauvais et incommode ; quand il est bon, je ne le veux pas « passer », je le retâte, je m’y tiens. Il faut courir le mauvais, et se rasseoir au bon«  _ tout une gymnastique et une cinesthésie. Et Montaigne de se gausser de « ces prudentes gens, qui ne pensent point avoir meilleur compte de leur vie que de la couler et échapper, gauchir et, autant qu’il est en eux, ignorer et fuir, comme chose de qualité ennuyeuse et dédaignable » _ quel gâchis ! Lui, la connaît « autre » ; et nous livre son mode de dégustation : « Si la faut-il étudier, savourer et ruminer, pour en rendre grâces condignes à celui qui nous l’octroie » _ avec toute la gratitude requise. Qui lit et retient pareille leçon ? à part François Jullien dans « Du « temps »  Eléments d’une philosophie du vivre » (chez Grasset, en février 2001). Avec cet hymne flamboyant en conclusion : « Pour moi donc, j’aime la vie et la cultive telle qu’il a plu à Dieu nous l’octroyer« . Même si ici, pour « la cultiver » (la vie !), il fallait, à ce garçon de Bousk, faire fissa, faire vinaigre ! Mais c’est _ cet « Adieu la vie ! » _ quand même pareil (bien qu’en ultra-rapide, alors) que « cultiver » au fil des jours, certes, et au fil de l’âge, pour Montaigne : « voire en son dernier décours, où (il) la tien(t) », cette vie… Même s’il reste difficile d’appliquer encore au garçon juif de Bousk la remarque adjacente du bordelais : « et nous l’a Nature mise en mains, garnie de telles circonstances et si favorables, que nous n’avons à nous plaindre qu’à nous si elle _ la vie _ nous presse et si elle nous échappe inutilement«  !.. La « circonstance« , ici à Bousk, et pas qu’un peu, « presse » ; et n’est guère « favorable » à pareille montanienne « culture » de la joie du moment. D’autant que pour le coup, il y aurait certes lieu de « se plaindre » d’autres que soi (= les assassins), nous la faisant bel et bien hélas « échapper » et carrément perdre, cette « vie » pourtant « nôtre » ! Mais il en allait aussi ainsi durant les ultra-sanglantes guerres de religion, parmi les massacres desquelles vécut au quotidien Montaigne. La suite de la méditation montanienne _ sur sa vieillesse avec son lot de divers maux corporels _ demeure fort intéressante encore pour le cas de l' »adieu à la vie » du garçon juif de Bousk. Montaigne cite Sénèque : « Stulti ingrata est, trepida est, tota in futurum festur » : la vie de l’insensé est ingrate, elle est trouble, elle s’emporte vers l’avenir tout entière _ pour ce qui est de l’avenir à cette effroyable heure-là à Bousk !.. « Je me compose pourtant à la perdre sans regret, mais comme perdable de sa condition, non comme moleste et importune. » Sauf que le garçon de Bousk, lui, ne philosophe pas sur l’art général de vivre (=  saisir, prendre et « tenir »), de vivre le présent (son présent) ; qu’il dispose de bien peu de loisir (ou de marge, ou d’écart) pour « se composer » (= « se préparer ») « à la perdre« , « sa vie » ; mais qu’il a à affronter, et avec quelle urgence, la circonstance d’une situation déterminée singulière (de meurtre infligé) laissant fort peu de marge de manœuvre : comment échapper à la balle du fusil déjà armé ?! Je poursuis la méditation de Montaigne : « Aussi ne sied-il proprement bien de ne se déplaire à mourir qu’à ceux qui se plaisent à vivre _ et c’est le cas ici du garçon juif de Bousk ! Il y a du ménage _ cet « art » si précieux « d’exister » (= sagesse effective, car efficiente _ merci, François Jullien : en son « Traité de l’efficacité« , chez Grasset, en 1997) que nous lègue ici, en ce dernier « essai » (livre III, chapitre 13, donc), Montaigne _ à la jouir : je la jouis au double des autres, car la mesure en la jouissance dépend du plus ou moins d’application _ tel est bien en effet le secret _ que nous y prêtons _ « prêter (et « plus ou moins ») application » : la formule est magnifique de justesse. Principalement à cette heure _ du « dernier décours« , de la vieillesse chargée de maladies, pour Montaigne _,  que j’aperçois la mienne _ de vie _ si brève en temps _ pas autant toutefois que celle du garçon de Bousk, en la « circonstance » _, je la veux _ mais dans un espace (= laps, moment) de temps relativement confortable, encore _, je la veux étendre en poids ; je veux arrêter la promptitude de sa fuite _ là, à Bousk, c’était le cas ou jamais de dire ce mot de « fuite » _ par la promptitude de ma saisie _ il y faut bien de la vivacité (ou « présence d’esprit », suivie de l’efficacité du geste) _, et par la vigueur de l’usage, compenser la hâtiveté de son écoulement _ on ne saurait mieux dire. A mesure que la possession du vivre est plus courte, il me la faut rendre plus profonde et plus pleine« , détaillait son art d’exister (= jouir vraiment de ce « cadeau des cadeaux » qu’est « vivre », en en découvrant et pratiquant « l’usage » de la « possession« ) le sage de la tour : lui dont l’âme mesure « combien lui vaut d’être logée en tel point _ la librairie à l’étage supérieur de sa tour _ que, où qu’elle jette sa vue, le ciel est calme autour d’elle« … Mais la sagesse (et la joie) du « salut à la vie« , au moment que la balle qui la lui ôte est déjà toute prête, elle, dans le chargeur ; la sagesse (et la joie) du « salut à la vie« , donc, du garçon juif de Bousk à l’instant de venir basculer dans la fosse _ puisque c’est de lui surtout qu’il s’agit ici _, est absolument identique à la sagesse un peu plus lente, en fait « alentie », et pourtant si « prompte« (= à jamais jeune, en esprit), du vieux Montaigne, tout mûri _ sans en être alourdi _ de son expérience (« De l’expérience » est justement le titre donné par Montaigne à cet ultime « essai » de son livre) : c’est le même alerte chant d’allégresse d’action de grâce « à la vie » (du garçon _ se retournant pour crier son « adieu la vie ! » _ qu’on est en train de prendre _ = assassiner) qui nous est restitué au plus vif, mais oui, grâce au « re-cueillement » _ à Bousk, district de Lvov, le 29 avril 2004, du « témoignage » d’Anna Ivanivna Dychkant, l’ancienne jeune fille amie, de soixante-dix-sept ans maintenant à cette date _ elle n’a rien oublié. Contre le fait le plus violent (de cette mort infligée par balle _ de fusil Mauser !), la parole _ le chant, le cri _, et « il n’y a pas photo ! », demeure la plus vive.

la chaîne renouée et prolongée des témoignages

La parole prononcée _ par le garçon _ ; écoutée _ davantage qu’entendue _ par Anna, sa camarade de classe ; puis souvenue, contre vents et marées d’une vie, par cette femme ; puis restituée par la mémoire et le témoignage _ de la vieille Anna qu’elle est devenue, « en son dernier décours » _ ; en même temps que re-cueillie par ceux qui ont si fort et si délicatement, à la fois, voulu, à leur tour, que cette formidable parole (d’assassiné) soit re-dite et ré-écoutée ; puis encore transmise à toux ceux qui maintenant vont la lire, et s’arrêter, si peu que ce soit, la « méditer » ; et ne pas, voire ne plus, l’oublier, à leur tour ; et la re-dire encore, à d’autres, de nouvelles générations : soit toute une chaîne « amicale » (en même temps qu’inquiète et s’efforçant aussi de ne rien négliger en matière de mesures préventives effectives, face aux déchaînements, à fleur de tant d’instants, des haines) ; tout une chaîne « amicale », donc, de « mémoires », contre le néant de l’ignorance et de l’oubli où _ dans la fosse duquel néant _ on avait voulu enfouir _ à jamais _ tout cela. Oui, c’est le même chant d’action de grâce, le même hymne à la vie, dont l’écho, tout vibrant, retentit, re-vit, re-resplendit, n’en finit pas, grâce au recueillement du « témoignage », de se prolonger dans la lumière soyeuse du bel été sub-carpatique : « C’était l’été, il faisait bon« , à Bousk (page 182, pour le récit de ce témoignage d’Anna Ivanivna Dychkant). Montaigne encore : « C’est une absolue perfection, et comme divine, de savoir jouir loyalement de son être«  : « célébration« , avais-je commencé à dire en mon article-souche ; et dans la _ montanienne _  « loyauté« , dois-je poursuivre ainsi.

recueillir pour « construire » (au lieu de laisser dé-faire) « l’humanité »

Le Père Desbois _ qui a fondé en 2004 l’association « Yahad_In Unum » (et dirige le Service des évêques de France pour les relations avec le judaïsme ; de même qu’il est conseiller auprès du Vatican pour la religion juive) _ participe, par ce recueillement-récollection, si important, de « témoignages » des massacres « par balles » de 1941-44 dans l’actuelle Ukraine,  à l’hommage dû, aussi, à ces morts restés « sans sépultures », dans des fosses ouvertes et refermées à la va-vite, et laissées _ sauf l' »opération » « 1005 » _ plus ou moins « telles quelles » depuis. Ainsi à Khvativ (district de Lvov, aussi) et sa « Forêt sur les Juifs » (nom qui à lui seul signifie…), devant des os à fleur de terre, découvre-t-on ce commentaire du Père Desbois, page 85 : « Ici se perd la dernière trace de dignité humaine et religieuse, l’enterrement des os de ses morts. Des hommes, des femmes et des enfants sans tombe ni sépulture comme un ultime signe de déshumanisation«  _ ou « barbarie » (sur ce concept, qu’on se reporte à l’analyse du philosophe Patrick Henry). Et pour « que les descendants puissent savoir où leurs grands parents ont été assassinés » (ajoute-t-il, page 147). Et encore, au-delà de cet « acte de justice vis-à-vis des morts«  _ et de ce « besoin », des descendants (mais aussi de l’humanité tout entière, devant le tribunal de l’Histoire), de connaître la vérité _, un « travail » tel que celui du Père Desbois et de son équipe constitue « un acte de construction _ parce que « fondation » _ de la civilisation« . Et sans doute « aussi un acte de prévention d’autres génocides.«  « Mon travail _ dit avec son souci de pragmatisme le Père Desbois _ consiste aussi à dire que, même si c’est bien plus tard, quel que soit le génocidaire, quelqu’un viendra et trouvera. Le sang d’Abel ne cesse de crier vers le ciel. Comme il est écrit dans la Genèse : « Ecoute le sang de ton frère crier vers moi du sol », Genèse, 4.10 «  (pages 178-179). Que les assassins sachent : ex-humé, le crime trahit immanquablement la responsabilité de qui en a commis l’acte ; jamais à la fin des fins la mort ne parvient à bout de la vérité.

libérer du secret _ ou le pervers pacte de complicité avec les bourreaux

Un art de « retrouver » qui _ que ce soit clair, en acceptant de répondre à un tel « cri d’appel » _ fait encore partie de l’art du « rencontrer »_ pour l’équipe du Père Desbois. L’option claire _ autant éclairante, ou clarificatrice, qu’éclaircie _ du « témoignage » libère enfin ces nouveaux « témoins » _ devenus tels, actifs, et enfin : par la vertu et la grâce de leur « témoignage » _ de l’obscur et interminable autant qu’involontaire « pacte de complicité » brouillé et pervers les liant, bien malgré eux, et depuis si longtemps, aux bourreaux-exécuteurs assassins. « Pacte » qui les faisait, eux, malheureux « spectateurs » de hasard de l’horreur, un malheureux jour de la guerre, par le poison tourmenteur de quelque obscure mauvaise conscience _ de n’avoir « rien pu faire » pour leurs voisins et leurs amis, ou d’avoir été « réquisitionnés » _ sur la menace des armes _ pour quelque indigne (et en cela coupable) besogne _ ; « pacte » pervers, donc, qui, incroyablement, les faisait partager avec les meurtriers, criminels absolument cyniques, eux _ l’enfouissement des victimes dans le néant lourd, effroyablement, à son tour, du vénéneux secret. Il faut infiniment de tact et de délicatesse d’art de l’approche, du contact et de l’entretien, pour vaincre l’empoisonnement à demeure et illimité d’un tel venin, et, vidant la plaie de son pus, faire surgir la joie rédimée d’une « vraie » confiance.

à la rencontre de ce que disent les voix assassinées

Ces vies assassinées, ces voix qu’on a cru avoir fait (et définitivement) taire, « parlent » donc « encore », et disent « quelque chose », fut-ce seulement des circonstances factuelles de leur absurde meurtre, pour peu qu' »on » aille à la rencontre, d’abord, des malheureuses traces : « signaux » mutiques (tels que douilles, par exemple) « à analyser », afin qu’ils livrent « techno-scientifiquement » leur moisson d’informations à qui sait les interroger. Et pour peu, aussi et surtout, qu' »on » aille à la rencontre des « témoins ». Ces « témoins » _ ils sont la « pièce capitale » de ce qui devient l’hommage (celui de la « vérité ») aux assassinés _ pouvant « parler », eux, à la différences des « choses », muettes ; et parler avec toute la richesse de précision du « moindre détail » : si mince soit-il, celui-ci offre l’infinie richesse du « vrai » _ voilà qui change du mensonge ; ainsi que du brouillard de confusion de quelque mauvaise conscience. Avec toute la richesse de précision du « moindre détail » « vrai », donc, d’un récit « fidèle » (de ce « détail » humain-là, très « humain ») des circonstances particulières, ou singulières _ c’est aussi une affaire d' »attention » et de « focalisation », positive _ de ce qui arrivé et tombé dessus, ce jour-là, aux assassinés basculés de la fosse. Le détail _ irremplaçable _ de tel geste particulier, ou de telle parole effectivement prononcée : ces « détails » que seuls les « témoins » qui de leurs yeux, ont « vu », « re-gardé », « con-templé » ; de leurs oreilles, « entendu », « écouté » et « re-tenu » ce qui advint alors (et est donc advenu).

le temps que se lève la réticence à la révélation

Et, remarquons-le aussi, au passage, les « témoins » ne sont certes pas près, tant qu’ils sont vivants, d' »oublier » : même si, et paradoxalement parce que, le silence du secret sur tout « cela », leur pèse douloureusement. Tant ils sont, aussi, et en même temps _ et c’est un facteur décisif _, « si près de le ré-véler », ce « secret », une fois la barrière de la « réticence » levée, avec la part de « honte » (de quelque faute) qu’elle comporte, que cette culpabilité-ci soit réaliste ou fantasmée ; mais cette responsabilité adjacente-là est tellement minime comparée à celle, colossale, des tueurs ! Et cela, tant qu’un souffle de vie maintient, avec l’oxygénation du cerveau, une vivante mémoire : voilà encore pour le poids du « secret ». Ainsi voici l’exemple de la réticence à parler d’Olena : à Khvativ, village décidément pauvre en « personnes âgées » dès qu’on manifeste si peu que ce soit le désir d’en « rencontrer » quelqu’une, Svetlana, la traductrice, pénètre dans la maison où elle a pu, enfin, se faire dire et apprendre que résidait une personne âgée (de quatre-vingt-onze ans). Mais Svetlana « ne réapparaît qu’une demi-heure plus tard, la tête basse, désabusée : « Elle a tout vu, mais elle ne veut pas parler. Elle a peur du KGB. » Toute l’équipe _ qui se préparait à enregistrer le « témoignage » _ remballe, déçue. Moi, je ne peux pas me résoudre à quitter le village. J’observe la maison. Comment m’en aller, alors qu’il y a quelqu’un, à l’intérieur, qui sait tout ? Je ne partirai pas. J’attends, debout contre la barrière fermée, en regardant la porte comme une supplique. Au bout de quarante-cinq minutes _ de plus ! que la demi-heure de « négociations » de Svetlana, déjà _ la porte de la maison s’ouvre, tout doucement. Une vieille dame, petite et un peu voûtée, appuyée sur un bâton de bois noueux, sort. Elle porte un anorak gris et un beau foulard bleu. Elle s’approche lentement, lève les yeux vers moi et s’assied, en silence, sur un banc. Elle s’appelle Olena et veut bien parler. Après m’être assuré qu’elle ne repartira pas, je vais chercher Svetlana pour qu’elle me traduise les paroles de la vieille dame. Mon équipe s’installe et elle commence…«  La réticence et le secret d’Olena, c’était le terrible poids de remords sur sa conscience aujourd’hui toujours de « n’avoir rien pu faire« , sinon s’enfouir davantage encore « dans les blés » pour se cacher, à cette déchirante « dernière parole » de l’amie (juive) de sa mère, que les Allemands menaient alors à la fosse d’exécution, criant « jusqu’au dernier moment » : « Olena, Olena, sauve-moi !« … Indissolublement, « cette voix, ce cri qui a résonné dans la forêt, ces derniers mots« , re-dit encore à la page suivante (page 85) le Père Patrick Desbois…

l’hommage de la vérité

Seuls les « témoins » peuvent donner à connaître, et transmettre, et offrir _ c’est un legs inappréciable _ le « moindre détail »(de l’Histoire) des difficilement dicibles horreurs passées, que les bourreaux avaient pu croire à jamais enfouies dans le « secret » de l’effroi (d’un tel degré de déchaînement violence : de meurtres), renforcé de remords (d’en avoir été si peu que soit « complices ») des « spectateurs » malgré eux. Et par le « témoignage » très simple (= le pur et simple récit) de ce dont ils se sont trouvés un malheureux jour de guerre, les « spectateurs » bien involontaires, les « témoins » que, ce pas de la « réticence » à parler enfin franchi, voici qu’ils deviennent, comme le plus simplement du monde _ dans le cadre du « protocole d’entretien » mis peu à peu en place, avec une délicatesse infinie de doigté, par le Père Desbois _, passent du statut d' »assistants passifs » et vaguement « un peu complices » des horreurs sans nom qu’il leur est arrivé hélas de côtoyer, au statut, modeste mais effectif, d' »actants » de l’Histoire (l’Histoire des absurdes victimes de la folie génocidaire), en en rétablissant, par leur récit, leur « témoignage », une part, même si elle reste modeste, de « vérité » : contre le mensonge et le silence alliés jusqu’alors, sans qu’ils en aient eu forcément, du côté des « spectateurs », du moins une conscience nécessairement bien claire ; ils erraient plutôt, à cet égard, dans le brouillard… Par cette métamorphose des « témoins » qu’ainsi ils « deviennent », du fait singulier (et même de l' »épreuve ») que constitue pour chacun l’engagement et l’acte, d’abord difficile, d’accepter de bien vouloir « témoigner », les voici venant rendre l’hommage de la vérité (précise, détaillée) aux personnes massacrées, contre la barbarie sans nom (imposant le silence du massacre) des assassins.

et surmonter le déni de justice _ par la systématicité de la collecte-recueillement des témoignages

Soit comme une façon d' »écouter » et de « répondre » à l' »appel » des assassinés, même si peu que ce soit ; et de leur « rendre » quelque forme, si maladroite que ce soit, encore, de justice (sans non plus « déranger », ni, a fortiori, « violer », la paix du lieu où, épars, désormais, leurs restes gisent), contre le déni de justice du silence _ absolument indifférent et têtu _ du néant. Et donc « le choix _ décisif, d’autant que le temps presse, pages 85-86 _ de ne pas simplement visiter les villages où vivaient les Juifs, mais tous les villages d’Ukraine, s’appuyer sur les archives soviétiques, les archives allemandes de l’Est et de l’Ouest, la recherche balistique et l’enquête de terrain, les témoignages« . Une façon de ne pas laisser la victoire au meurtre brut et absurde ; non plus que le « dernier mot » au bruit de claquement du percuteur de l’arme du bourreau-exécuteur : carabines Mauser à chargeur de cinq balles, le plus souvent _ « cela explique pourquoi les nazis faisaient avancer les familles juives par groupes de cinq personnes«  ; pistolets Walther ; plus rarement fusils-mitrailleurs, mitrailleuses lourdes, ou autres. Sur les armes en usage parmi les bourreaux nazis, on trouvera page 80 les renseignements de l’expert en balistique de l' »équipe » de Patrick Desbois, Micha (qui est aussi anthropologue), rencontré un matin au marché « aux souvenirs » de Lvov.

En conclusion,

nous relirons « Porteur de mémoires«  du Père Patrick Desbois _ avec deux cahiers de photos de Guillaume Ribot _, aux Éditions Michel Lafon en octobre 2007 ;

et nous regarderons à nouveau les photos des lieux et des regards

de Guillaume Ribot…


Titus Curiosus, ce 12 novembre 2008

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