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Quelques nouvelles de Claudio Magris, lecteur comme auteur, auteur comme lecteur ; un contemporain essentiel : il vient de publier « Croce del Sud »

11sept

Ce matin, je découvre dans le numéro de ce jour du Corriere della Sera quelques nouvelles récentes du cher Claudio Magris,

à travers un entretien qu’il vient de donner,

à l’occasion de la sortie, chez Mondadori, de son livre Croce del Sud ;

ainsi que de sa présence, ce vendredi 11 septembre, au Festival de littérature de Mantoue,

dont le titre est, cette année, « Note a piè di pagina nella storia »…

L’entretien

_ qui prolonge en quelque sorte, à mes yeux, les réflexions d’Alberto Manguel sur sa bibliothèque _

est intitulé : Traduttore, creatore infinito. Ogni libro ne nasconde un altro.

Le voici :

Traduttore, creatore infinito. Ogni libro ne nasconde un altro

Monti, Dreyden, Lin-Shu che rese in mandarino il «Don Chisciotte» senza conoscerne la lingua : storie di parole e scoperte. Claudio Magris l’11 settembre al Festivaletteratura

di CLAUDIO MAGRIS
Stati Uniti, gli incendi devastano la costa occidentale: bimbo di un anno trovato morto
Tim Mara (Dublino, 1948 – Londra,1997), «Lightbulb and book» (1996, litografia e stampa a colori su carta, particolare), courtesy Tate Britain, Londra
shadow

Le parole sotto le parole, scriveva un maestro della linguistica come Jean Starobinski, riferendosi agli anagrammi di un altro grande, Ferdinand de Saussure. Ogni parola ne copre, ne nasconde e ne contiene un’altra e quando la si usa è come smuovere il terriccio, evocarne e farne apparire altre, come oggetti sepolti nella terra o nella memoria, individuale e collettiva _ voilà. Ogni espressione ha a che fare con questa miniera nascosta ; più di ogni altro la traduzione, che per ogni espressione ne ha ben più di una a scelta, una cava stratificata nella mente dell’autore che si traduce e nelle civiltà che si incrociano in lui. Tradurre significa non tanto comunicare quanto ricreare _ voilà _ una vicenda, un destino, facendoli restare se stessi ma insieme diventare altri. Tradurre è una forma di scrittura, non meno creativa di altre cosiddette originali ; Vincenzo Monti ha inciso sulla letteratura italiana più con la sua versione dell’Iliade che con i suoi versi in proprio, e John Dreyden considerava la sua traduzione dell’Eneide il proprio capolavoro letterario.

La copertina del nuovo libro di Claudio Magris «Croce del Sud», in libreria per Mondadori
La copertina del nuovo libro di Claudio Magris «Croce del Sud», in libreria per Mondadori

Si traduce, in genere, da una lingua all’altra ma talvolta — è accaduto spesso — da un testo a sua volta già tradotto, cosa che moltiplica le rifrazioni e rende più ardua, anche discutibile ma non meno creativa e culturalmente importante la ricreazione finale. Un poliedrico studioso e scrittore, Mikaël Gómez Guthart, ha scritto un affascinante e bizzarro saggio, Lin-Shu, autore del Chisciotte. Lin-Shu, racconta Gómez Guthart, era un geniale erudito cinese, pittore, calligrafo e poeta — che per la lirica cinese sono quasi la stessa cosa —, romanziere e soprattutto traduttore. Non conosceva le lingue degli autori che ha fatto leggere ai lettori cinesi — Balzac, Dumas padre e figlio, Hugo, Goethe, Cechov, Ibsen, Tolstòj, Shakespeare, Stevenson, Cervantes, Montesquieu. Si faceva leggere in mandarino orale i testi dai suoi assistenti che conoscevano la lingua originale e poi li traduceva, attraverso gli occhi di un altro, come scrive Guthart _ et je pourrai y adjoindre les traductions du japonais de René de Ceccatty (en collaboration avec Ryôji Nakamura) ; pour ses traductions de l’italien, sa situation à l’égard de la langue à traduire est assez différente, comme il le narre en son magnifique Enfance, dernier chapitre ; cf aussi le podcast de mon entretien avec lui le 27 octobre 2017

Non è certo un corretto procedimento scientifico, perché rischia di trasformare o trasforma la traduzione in una copia-variazione di ventagli che si sovrappongono. Ma anche Isaac Bashevis Singer ha tradotto in jiddisch Hamsun senza conoscere il norvegese, e d’Annunzio senza conoscere l’italiano, diffondendo quei capolavori nella Mitteleuropa e nell’Europa orientale ebraica. Gombrowicz — è sempre Guthart che lo ricorda — riscrive in Argentina, con l’aiuto di due scrittori cubani che non conoscevano il polacco, il suo Ferdydurke, lo ritraduce con l’aiuto di un professore in francese ed è questa la versione che dalla Francia si diffonderà in tutta Europa e nel mondo.

Lin-Shu diviene, in modo analogo, il traduttore-autore del Don Chisciotte. Quel romanzo è, in questa prospettiva, esemplare anche perché alle origini della sua scrittura c’è la segreta idea che ogni testo sia sempre la traduzione o il rifacimento di un altro ; lo stesso Don Chisciotte sarebbe, nella finzione di Cervantes, la versione del romanzo di un autore arabo. In questo gioco di specchi Lin-Shu può apparire l’autore di Don Chisciotte non meno di Cervantes. È come se, sotto ogni libro, ce ne fosse sempre un altro, il caos — prima, contemporaneamente, al di fuori di ogni misura temporale — che il Verbo ordina e sempre ricrea. Probabilmente i traduttori esistevano prima della Torre di Babele. In quasi ogni Robinsonade, le numerose imitazioni e rifacimenti del Robinson Crusoe nel Settecento, il naufrago solitario sull’isola trova segni e carte di un altro naufrago vissuto e morto anni prima, che racconta a sua volta di predecessori. Profondo è il pozzo del passato, dice la prima riga della tetralogia di Mann, Giuseppe e i suoi fratelli.

Il mio maestro Giovanni Getto affermava di aver trovato, nel romanzo secentesco Historia del cavalier perduto di Pace Pasini — che a sua volta si riferiva a una storia di prepotente jus primæ noctis nel Veneto — una sorta di ipotetico «originale» dei Promessi sposi, dando così ancor più spessore al capolavoro manzoniano.



Chi avresti voluto essere? Così sembra talora chiedere l’autore al personaggio che sta narrando e che quanto più vivo e vero, tanto più sente sfuggire al suo controllo, come diceva Tolstoj a proposito di Anna Karenina : «Fa ciò che vuole». Ma l’autore pone talora questa domanda pure a se stesso — ai propri sogni e desideri, alle proprie incertezze, alla nebbia fluttuante della propria persona.

Se lo chiede, nel romanzo _ a-t-il été publié ?Les passants essentiels, un originale traduttore-scrittore, Jean Pastureau, che ha trascorso la vita _ il est né le 26 juillet 1940 à Limoges ; il vit à Apt, en Provence… _ a tradurre splendidamente in francese, insieme alla moglie Marie-Noëlle, libri altrui, soprattutto italiani, traduzioni straordinarie che sono diventate pure la sua scrittura personale, la sua indagine ma anche la sua invenzione della realtà _ Jean et Marie-Noëlle Pastureau sont les principaux traducteurs-passeurs en français de l’œuvre de Claudio Magris… Probabilmente per Jean Pastureau non c’è differenza tra essere narratore e traduttore, quasi due arrangiamenti di un’opera linguistica.

Chi avresti voluto essere ? la risposta a questa domanda è contenuta nel capitolo forse più bello del romanzo, L’homme à la mallette. Una valigia che idealmente contiene quasi tutto — le pagine scritte, le idee su quelle che saranno scritte, le cose da tradurre, la loro immagine che spinge a tradurle, forse un giorno sulla carta ma certo immediatamente nella mente. Anche qui, parole sotto altre parole. La traduzione è, potenzialmente, una piccola e infinita biblioteca di Babele.

Quest’ultima, come nella fantasia borgesiana, contiene tutto, ogni testo, ogni sua versione, ogni sua stesura, ogni diceria sul suo autore. Chissà, forse Jean Pastureau — come Lin-Shu — aspira ad essere soprattutto traduttore ossia scrittore totale. Probabilmente non si fa illusioni sulle sue parole, tradotte o inventate. Forse non cerca nemmeno l’eccellenza letteraria. Ma, come si dice nel romanzo, c’è un’unica vera eccellenza e «risiede nel sopravvivere». La scrittura è forse un filo di Arianna che aiuta non a uscire dal labirinto, come nel mito antico, ma a penetrarvi da tutte le parti, ad avvolgerlo, in modo da depistare il cammino che vuol condurci verso l’uscita dal labirinto della vita. Una scrittura che cerca di aiutare ad uscire di scena un po’ più tardi. Non è molto ma è già qualcosa.

Il logo del Festival di Mantova
Il logo del Festival di Mantova

L’appuntamento al Festivaletteratura

«Note a piè di pagina nella storia» : è questo il titolo dell’evento in programma l’11 settembre al Festivaletteratura di Mantova. Claudio Magris, in collegamento streaming, dialogherà con lo scrittore e critico Alberto Rollo sul tema del rapporto tra vita e finzione letteraria ( ore 17, piazza Castello). Il tema dell’incontro si lega al nuovo libro di Magris, in libreria per Mondadori, Croce del Sud. Tre vite vere e improbabili, che rievoca tre figure reali : un etnologo sloveno, un avvocato francese, una suora italiana. Germanista e scrittore, Magris è nato a Trieste nel 1939.

Claudio Magris, lecteur comme auteur ; auteur comme lecteur :

un contemporain essentiel…

Ce vendredi 11 septembre 2020, Titus Curiosus – Francis Lippa

Ce qu’apporte le traduire, selon le traducteur André Markowicz

17mar

Un témoignage à connaître

d’un passeur de littérature exigeant,

en voyage passionnant dans l’entre-deux-langues, et l’entre-deux-cultures…

André Markowicz : « Traduire, c’est rendre compte de la matérialité de la langue »

Alors que s’ouvre le Salon du Livre de Paris, qui met cette année à l’honneur la Russie,

le traducteur et poète André Markowicz revient sur son travail de passeur de la littérature russe en France.

LE MONDE | 16.03.2018 à 10h56 • Mis à jour le 16.03.2018 à 12h30 | Propos recueillis par Cécile Bouanchaud

Mettre la Russie à l’honneur au moment où le torchon brûle entre les capitales occidentales et Moscou relève de la gageure pour le Salon du Livre de Paris. La plus grande manifestation littéraire de France ouvre ses portes au public à la porte de Versailles, vendredi 16 mars, pour se terminer lundi. Préparé depuis des mois, le Salon du Livre de Paris met en avant le renouveau des lettres russes, en invitant trente-huit auteurs russes, dont Ludmila Oulitskaïa, lauréate du prix Médicis étranger en 1996 _ pour Sonietchka.

Le traducteur André Markowicz _ cf aussi mon article du 24 décembre 2017 : A méditer sur les mésusages idéologiques de la littérature (et des Arts) _, qui a retraduit tout Fiodor Dostoïevski (1821-1881), est un passeur _ majeur _ de la littérature russe en France ; il revient sur son travail et l’impossibilité de traduire une œuvre « dans l’absolu », emmenant ainsi _ par la force des choses _  le lecteur « entre deux mondes ».

Quelles sont les grandes règles de tout travail de traduction ?

Le premier principe, c’est qu’il n’y a pas de principe. Si je devais en trouver, je dirai que c’est rendre sensible à autrui _ lecteur de langue française _ la lecture que je fais _ traducteur du russe en français _ d’un texte _ en langue russe. C’est une lecture appliquée _ à la fois besogneuse et archi-exigeante en son artisanat de traduction très minutieux, et artiste eu égard à la visée de la lecture la plus juste (et belle) possible qu’en feront les lecteurs français _, la traduction doit rendre compte de la structure du texte et doit prendre en compte tous les éléments de cette construction ; c’est particulièrement vrai _ et même capital ! _ pour le style. Traduire, c’est rendre compte de la matérialité de la langue _ de départ, comme de celle d’arrivée de la traduction.

Les textes que je traduis n’ont _ bien sûr _ pas été pensés en langue française ; donc ils ne doivent pas répondre à des règles d’une langue littéraire française préétablies _ la langue de la traduction est une langue d’accueil : elle doit être ouverte à ce qui va être ainsi accueilli. La traduction est un exercice d’accueil _ voilà ! _ et d’enrichissement _ mais oui ! _ des possibilités de la langue française _ sur un tout autre terrain que celui de la traduction, celui de la création, regarder ce qu’a magiquement réussi Vladimir Nabokov dans son merveilleux Ada, ou l’ardeur ! On ne peut pas juger un texte traduit en fonction de lois qui ne sont pas les siennes _ quelles monstrueuses mutilations ce seraient…

C’est pour cela que j’ai traduit les œuvres complètes de Dostoïevski, pour que le lecteur puisse s’habituer _ à l’univers d’un style absolument singulier _, qu’il comprenne que ce n’est pas la langue de San Antonio, par exemple, et qu’il n’y a pas à comparer. C’est pour cela que je traduis par cycle, par grands ensembles, aucun livre séparé ne peut exister.

Qu’est-ce qui vous anime dans le travail de traduction ?

Ce qui me plaît, c’est le travail _ de bénédictin _ sur la langue. Ou plutôt, le travail sur les langues, celle au départ et celle à l’arrivée. La traduction, c’est toujours un entre-deux _ et un passage, difficile, complexe, jamais parfait _ ; on n’est ni là, ni ailleurs. Il ne faut jamais penser que le livre en français d’un auteur russe équivaut _ certes pas ; jamais ; il tente seulement de s’en approcher ; du moins à de très rares exceptions près… _ au livre russe. Aucune traduction n’existe d’une façon absolue _ ni pérenne : la langue de réception vieillit et se périme ; même s’il ne faut pas nécessairement adapter à la stricte modernité de grands textes du passé (qui eux ne vieillissent pas) ! _ ; c’est à chaque fois des interprétations, des tentatives, non pas pour passer d’un monde à l’autre, mais pour faire comprendre au lecteur _ d’un moment, d’une époque _ que l’on est entre deux mondes _ et non dans une idéale, définitive et absolue transparence…

Je décris cela dans mon nouveau livre, L’Appartement [aux Éditions Inculte], dans lequel j’explique comment un traducteur vit entre deux mondes, entre deux temps, en l’occurrence entre la Russie et la France. La traduction est un lieu physique, qui redevient un lieu mental _ par le travail du traducteur-passeur voyagiste… _, puis un nouveau lieu physique.

Est-ce que cela n’est justement pas frustrant de ne jamais pouvoir traduire un texte dans son « absolu » ?

Il ne faut pas prendre cette situation de déplacement comme quelque chose de tragique, mais comme quelque chose de l’ordre de la nature : c’est comme ça _ oui. Comme quand il pleut, ce n’est ni bien ni mal, c’est comme ça. Il y a toujours de la frustration et du renoncement. Mais que voulez-vous, plus le temps passe, plus je m’aperçois qu’il y a des personnes plus jeunes que moi ; c’est frustrant _ en un sens, certes, mais pas dans d’autres _, mais qu’est-ce que je peux y faire ? Je me plains beaucoup ou je pleure.

Qu’est-ce qui est constitutif de la culture russe et qui vous pose des difficultés en tant que traducteur ?

J’ai commencé à traduire Dostoïevski avec L’Adolescent. Ce personnage a une idée : il veut être Rothschild, non pas pour être l’homme le plus riche du monde, mais pour être l’homme le plus libre. Car Rothschild est le seul à pouvoir faire ce qu’il veut ou à ne pas le faire. La liberté russe, ce n’est pas la liberté de l’action, c’est un accord libre et sans contrainte avec un ordre préexistant _ voilà qui est bigrement intéressant. Un Occidental américanisé a du mal à comprendre cette idée. Par ailleurs, dans la culture russe, la prise en compte de l’individu n’existe pas, elle est toujours secondaire.

Un autre exemple que l’on retrouve dans la culture russe : dans la vie de tous les jours, il y a une exacerbation des sentiments et des choses, une sorte de violence extrême, et en même temps une sorte de grande chaleur humaine. Une confrontation tragique entre la conscience de l’histoire et la conscience de la valeur d’une vie humaine, dans laquelle Fiodor Dostoïevski n’entre pas, à l’inverse de Léon Tolstoï, Mikhaïl Boulgakov ou Vassili Grossman.

Dans La Fille du capitaine, d’Alexandre Pouchkine, quand Pougatchev prend une forteresse et va pendre les officiers de celle-ci, les hommes chargés de les traîner à la potence, leur disent « ça va aller ». Tout cela est dit avec compassion, gentiment, mais ils les pendent. Cet état d’esprit est une caractéristique russe _ dont acte. Evidemment, la Russie ne se résume pas à cela. D’ailleurs, je ne sais pas ce que c’est la Russie ; je n’ai absolument pas envie de le savoir ; il n’y a pas d’essence _ c’est aussi très important de le certifier : les identifications closes et substantialistes sont le terreau des exclusions racistes et autres abêtissements… _ sur le sujet de la culture.

Y a-t-il des mots russes qui sont particulièrement difficiles à traduire ?

Les difficultés fondamentales de traduction sont dans Dostoïevski. Dans Crime et Châtiment, un personnage mineur, qui n’apparaît que deux fois sans être nommé, aperçoit Raskolnikov, et lui dit un seul mot : « assassin ». Mais ce n’est pas exactement cela, il s’agit d’un mot russe, imprégné de langue populaire et de légende biblique, et qui ne signifie pas exactement qu’il est un assassin, mais qu’il a enfreint le commandement de Dieu en tuant. Si je traduis « assassin », je traduis l’intrigue _ le pitch grossier, le squelette du scénario _ du roman, mais pas l’idée, pas le sens. C’est pour cela que j’ai délibérément mal traduit, en disant : « tu as tué ». C’est cela qui compte. Ces difficultés-là, c’est constant ; il y en a des centaines auxquelles les traducteurs se confrontent _ merci de si bien le faire connaître.

André Markowicz, célèbre pour ses versions dépoussiérées des romans de Fiodor Dostoïevski, pose le 2 janvier 2012 à Rennes.

Ce samedi 17 mars 2018, Titus Curiosus – Francis Lippa

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